Una magnifica serata per ricordare il grande tenore nel teatro milanese dove ha riportato leggendari trionfi

GIUSETTE DI STEFANO

E’ TORNATO ALLA SCALA

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di Renzo Allegri

 

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A due anni dalla morte, Giuseppe Di Stefano è stato ricordato con una serata in suo onore, voluta e organizzata dell’Accademia Arte & Musica, a Milano, al teatro alla Scala. Alla manifestazione hanno partecipato importanti critici e musicologi e nel corso della serata è stato donato  al Museo del Teatro alla Scala un magnifico ritratto del tenore, eseguito dallo scultore W. Alexander Kossuth.

E’ difficile parlare di questo di Di Stefano. E’ sempre stato un personaggio scomodo, nel senso che non si è mai piegato di fronte a nessuno. Aveva una personalità forte ed estremamente indipendente, ma il suo comportamento è sempre stato leale e molto civile. Non ha mai fatto il “tenore”. Amava dire:  “Io sono un uomo che per divertirsi ha anche cantato”. Ha polemizzato con direttori d’orchestra, con colleghi cantanti, con i critici. Nella sua carriera ha avuto alti e bassi. E’ stato sommo, inarrivabile. E poi è caduto, ancor giovane, in difficoltà vocali tremende. E allora i suoi nemici gli sono saltati addosso godendo di vederlo nella polvere. Lo hanno criticato, inventando cause assurde del suo crollo che per anni ha dovuto portarsi dietro.

Ma adesso, a distanza di tanto tempo, è possibile tracciare un bilancio sereno. Ormai le polemiche sono acqua passata. Solo coloro che non capiscono niente di musica insistono in quelle critiche, che non hanno proprio nessun senso.

Giuseppe Di Stefano fa parte della storia della musica. Su questo non ci sono dubbi. E della Storia della musica con la S maiuscola. Tra le grandi voci del nostro secolo, occupa un posto di primaria importanza. Per certi versi è stato un tenore unico. Anche perchè la bellezza della sua voce si è sempre accompagnata a una stupefacente chiarezza declamatoria e interpretativa, come raramente è dato incontrare. Il suo fraseggiare, il suo porgere, sia nelle arie come nei recitativi, era spontaneo, naturale, perfetto, degno di un attore di prosa. <<In palcoscenico io “recito cantando”>>, affermava con orgoglio  quando era in carriera, e nessuno lo faceva con l’eleganza e la magia che aveva lui.

Di Stefano è nel cuore di tutti gli appassionati  di canto. Pensando a lui, si immagina una voce, bella come nessun’altra, libera e fresca come quella di un eroe, che se ne va, ineffabile, nell’aria. Nelle opere liriche, come nelle canzoni, trascinava in un mondo di emozioni indimenticabili.

Di Stefano è stato una leggenda. Ed è ancora un mito. Anche perchè ha avuto la fortuna di essere protagonista di un evento unico nella storia della musica: cantare spesso in coppia con Maria Callas, formando con la “divina” un “duo” irripetibile. Pippo e Maria erano due geni del palcoscenico. Due personalità forti e incoercibili, che, messe insieme, formavano una miscela esplosiva, dalla forza artistica incalcolabile. Chi ha assistito allo loro opere negli anni Cinquanta sa che un miracolo del genere non succederà mai più. Ma, per fortuna, le loro interpretazioni, ancora diffuse in milioni di Cd, continuano a stupire ed emozionare il mondo.

Siamo stati amici per anni. L’ho intervistato molte volte. Ma non amava l’incontro con i giornalisti.  In un’occasione però fu molto loquace. Parlò a ruota libera. Fu nel 1996, quando andai a trovarlo per un articolo per “Ongaku No Tomo”, la prestigiosa rivista di musica classica giapponese, che lo pubblicò su otto pagine. Sono andato a rileggermela in questi giorni. E’ un’intervista ricca di confidenze eccezionali, di informazioni inedite sulla sua vita e sulla sua carriera. Credo che per la prima volta abbia rivelato in quell’intervista la vera storia della sua crisi vocale e della sua relazione con Maria Callas. Un documento molto importante, e penso la sua ultima lunga intervista.

<<L’ultimo concerto>>, mi disse allora Di Stefano <<l’ho tenuto nel dicembre del 1995 in Messico. In quella nazione avevo cantato la prima volta nel 1952, quando avevo fatto una tournée con Maria Callas interpretando cinque opere, che avevano mandato in visibilio il pubblico. Da allora ero sempre stato un beniamino di quella gente. E anche per l’ultimo concerto avevo ricevuto accoglienze trionfali. Ma, nel corso di quel concerto mi resi conto che gli applausi erano regalati. La mia voce era scassata. Facevo pena a me stesso. Al termine  mi son detto: “Basta Pippo, è giunta l’ora di non aprir più bocca”. E così è stato>>.

Parlava con un tono di voce deciso ma che, all’accenno di non cantar più, tradì una leggera commozione. Stavamo camminando lungo l’Adda, il fiume che scorre poco lontano dalla sua casa in Brianza. Era una bella giornata di fine autunno. Pippo mi aveva dato appuntamento all’improvviso. <<Passo da casa, vieni a trovarmi>>, mi aveva detto al telefono. Parlava da Amburgo, in Germania, dove si  era recato per partecipare a una grande festa in suo onore. Si sarebbe fermato nella sua casa alcuni giorni, poi via, verso il caldo. Da alcuni anni trascorreva i mesi invernali in Kenia. <<Mi sono fatto costruire una bella casa lungo la spiaggia dell’Oceano Indiano, a pochi chilometri da Mombasa>>, mi aveva raccontato. <<Mi trovo benissimo in Africa. Ho scoperto un’altra vita, un altro pianeta. Prima ero legato ai teatri, alla mondanità, alle feste, alle grandi città, al chiasso, ai casinò e, naturalmente, alla mia professione di cantante. Adesso adoro il vento, il silenzio, gli spazi infiniti della giungla, il sole a picco, la natura selvaggia. Vivo in una zona che fino a qualche anno fa era deserta. Mangio quasi esclusivamente frutta, come i tucani. Dormo all’aria aperta, sotto l’ombra degli alberi, come i vecchi leoni. Sto a mollo nella mia piscina di acqua di mare, come una foca. Trascorro ore a osservare i tramonti tropicali, densi di una malinconia struggente e sempre nuovi. Il Di Stefano di un tempo, il tenore per intenderci, non c’è più. Io sono un’altra persona>>.

<<E la musica? Hai tradito la musica?>>, gli avevo domandato

<<No, la musica io non la posso tradire. La musica è la mia anima. Io sono fatto di musica. Nella mia grande casa africana ho fatto installare un magnifico impianto stereofonico e lo tengo accesso molte ore al giorno. Ascolto opere a anche molta musica sinfonica. Sono diventato un fanatico di Mozart. Ma ascoltare i capolavori di Mozart, Beethoven, Bach, Verdi, Puccini, Bellini, Donizetti in quella terra, tra quegli spazi, in quel silenzio, ti dà emozioni che qui, nella confusione caotica delle nostre città, non si possono neppure immaginare>>.

Accanto a Pippo c’era la sua seconda moglie, Monika Curth,  soprano tedesco, conosciuta sul palcoscenico e sposata nel 1992. <<Pippo è il mio idolo fin da quando ero una bambina>>, mi disse Monika. <<Poi, quando ho cantato con lui, è diventato il mio sogno e adesso è mio marito. Sono felice e stiamo bene insieme>>.

<<Anche in Africa Pippo è famoso>>, disse ancora Monika. <<Quando andiamo a fare la spesa in città, ogni tanto incontriamo delle persone. Italiani, francesi, inglesi, americani, tutti lo riconoscono. Qualcuno ha tentato di organizzare dei concerti, ma Pippo ha detto decisamente di no. Non canta più in pubblico. Lo fa solo in casa nostra, quando gli viene voglia. E la sua voce è ancora bellissima. Se ne sono accorti anche i nostri collaboratori domestici che sono indigeni. Quando Pippo canta, si fermano, si siedono per terra e ascoltano rapiti. E’ bellissimo vedere la scena. Pippo, con indosso soltanto in paio di calzoncini, nel salotto della nostra casa o in giardino sotto le palme, impegnato in qualche aria belliniana, con acuti ancora perfetti e filati inimitabili, e intorno i domestici di colore che lo guardano con i loro occhi bianchi, pieni di stupore. E accanto ai negri, anche i nostri due cani: Simba, un Rhodesian ridgecat terribile, usato per la caccia ai leoni e che a noi serve da guardia, e Chidogo un trovatello bastardino: anche loro sono innamorati della voce di Di Stefano>>.

<<Pippo, ti vedo felice, ti sento soddisfatto: non hai nessuna nostalgia dei bei tempi passati?>>, domandai..

<<Tanta tanta>>, rispose  socchiudendo gli occhi quasi a voler rivedere il passato. <<Per certi versi. la mia vita è stata bella come una favola. Spesso, però, le favole, hanno delle brutte conclusioni. Io invece sono fortunato. Sono felice anche ora che non canto più. Per cui ogni tanto penso al passato, ma non lo rimpiango: vivo con gioia il presente, che per me, nonostante tutto, è molto bello>>.

<<Quando ti sei accorto che eri nato per fare il tenore?>>.

<<Ho preso coscienza delle mie qualità canore a poco a poco. Fin da piccolo, mi piaceva cantare, ma lo facevo senza calcoli. Cantavo perchè ero felice. Cantavo canzonette. Non conoscevo niente dell’opera>>.

<<In famiglia, c’era qualcuno che amasse la lirica?>>.

<<Che io sappia no. Sono siciliano. Sono nato a Motta Santa Anastasia, a pochi chilometri da Catania. Mio padre era un carabiniere. Dopo la mia nascita lasciò l’arma, si trasferì a Milano in cerca di fortuna. Aveva un negozietto di ciabattino. Ma era troppo onesto per far soldi. E’ sempre stata mia madre a mandare avanti la baracca, con la sua abilità nell’arte del cucito. Né mio padre né mia madre si erano mai interessati di lirica. Cominciarono a distinguere un tenore da un soprano quando io sono diventato famoso alla Scala>>.

<<Chi per primo ti ha avvicinato al mondo della musica classica?>>.

<<Un amico. Un certo Danilo Fois, che divenne poi un noto avvocato. Aveva qualche anno più di me, ma giocavamo a carte insieme. Quando vincevo, canticchiavo e lui, che era un fanatico di lirica, mi ascoltava estasiato perchè diceva che avevo una bellissima voce. Un giorno, improvvisamente, sentenziò, gridando forte: “Tu sei un tenore”. Lo guardai meravigliato. “Cosa hai detto?”, chiesi. “Tu sei un tenore”, ripetè guardandomi con gli occhi fuori dalla orbita. “Adesso ho capito: tu sei un tenore e diventerai famoso, ne sono certo”. Ripresi a guardare le mie carte pensando che volesse prendermi in giro. Invece, da quel giorno egli continuò a parlarmi di lirica, a illustrarmi le qualità della mia voce, a ripetermi che dovevo trovarmi un maestro e cominciare a studiare seriamente musica.

<<A poco a poco riuscì a incuriosirmi. Un giorno decisi di andare con lui ad ascoltare un’opera alla Scala. Ma quel primo contatto con la lirica risultò noioso e antipatico. Dovetti fare una fila di ore, per avere il biglietto e finire poi in loggione, tra gli appassionati più sfegatati che a me però sembravano dei pazzi, degli esaltati. L’opera non mi diede alcuna emozione. Non la capivo. Non ricordo neppure che opera fosse. Tornai a casa disgustato e continuai a preferire le canzonette. Ma Danilo non si scoraggiò. Per lui “ero un tenore” e continuò a imbottirmi la testa con le sue fantasie.

<<Una sera mi portò in una osteria dove si esibivano tutti coloro che pensavano di avere una bella voce e aspettavano poi il giudizio della gente. Cantai anch’io e fu un disastro. Nessuno applaudì. Solo Danilo mi disse: “Hai cantato benissimo”. In seguito, sempre spinto dal mio amico, partecipai a un paio di concorsi e li vinsi. La mia foto finì sul “Corriere della sera”, nella pagina degli spettacoli. Tutti la videro e mi facevano le congratulazioni. Nella zona dove vivevo, improvvisamente ero diventato qualcuno. Le ragazze mi guardavano in modo diverso. La cosa mi inorgoglì. Mi resi conto che con la voce si potevano avere dei vantaggi e cominciai anch’io a prendere in considerazione la possibilità di fare il tenore>>.

<<Hai studiato con qualche maestro?>>.

<<Ho ricevuto delle lezioni di solfeggio da un tenore, Adriano Torchio, che cantava nel coro della Scala. Poi qualcuno mi presentò al baritono siciliano Luigi Montesanto, che era allora una celebrità. Tutti hanno sempre scritto che Montesanto è stato il mio maestro e anch’io l’ho sempre detto. In realtà, sono stato a scuola da lui soltanto due mesi. Poi è scoppiata la guerra e sono partito per il servizio militare>>.

<<Hai dovuto quindi interrompere le lezioni>>.

<<Ma ho cominciato a cantare. La vera preparazione alla mia carriera l’ho fatta sotto le armi, cantando per necessità. Il servizio militare era duro per me. Non sopportavo la disciplina, le marce, le levatacce. Mi accorsi però che, cantando, tutti mi volevano bene ed erano disposti a chiudere un occhio sulla mia pigrizia. Il tenente medico Giovanni Tartaglione, da cui dipendevo, era terribile e temuto da tutti. Di me diceva: “Sei un fetente”. Ma dopo avermi sentito cantare, cominciò a stimarmi. Certe sere mi chiedeva di cantare per i soldati e mi ascoltava estasiato. Un giorno arrivò l’ordine che il nostro battaglione doveva partire per la Russia. Significava andare incontro alla morte. Lo sapevamo bene. Il tenente mi chiamò e mi disse: “Tu devi rimanere in Italia. Come soldato sei un fetente, ma come tenore, un giorno sarai utile al nostro Paese”. Mi abbracciò commosso e mi consegnò l’ordine di trasferimento in un altro reparto che non sarebbe partito per la Russia. In questo modo mi salvò la vita. Dalla Russia non tornò neppure lui.

<<All’inizio del 1943 ottenni una lunga licenza per malattia. A Milano c’era miseria. I miei genitori non avevano lavoro, in casa si faceva la fame. Decisi di sfruttare la mia voce. Mi presentai a un impresario che stava allestendo uno spettacolo e gli chiesi di ascoltarmi. Cantai alcune canzoni e lo conquistai. Mi offrì 150 mila lire a serata e il giorno dopo cantavo nel suo spettacolo. Cambiai nome. Mi facevo chiamare Nino Florio. Non volevo che sui manifesti di quello spettacolo, che era di varietà, ci fosse il mio vero nome. Ero certo ormai che un giorno sarei diventato un tenore famoso e non volevo che il mio vero nome, Giuseppe Di Stefano, potesse essere in qualche modo confuso con un cantante di canzonette. Nino Florio divenne subito famoso. Dopo una settimana, il mio cachet era di 500 mila lire a serata.

<<Finita la licenza, tornai a fare il soldato. L’otto settembre del 43, quando arrivarono i tedeschi ero in caserma. Capii che le cose si mettevano male. Riuscii a farmi dare un permesso di libera uscita mostrando a un comandante delle SS una mia foto in smoking e dicendogli che ero un famoso tenore, molto più bravo di Beniamino Gigli. Mi credette e mi accompagnò di persona all’uscita della caserma.

<<Tornai a Milano, presi il treno per rifugiarmi in un paesino in provincia di Varese dove avevo una fidanzata. Ma il capotreno, che mi conosceva, mi suggerì di lasciar perdere la fidanzata e di continuare il viaggio oltrepassando la frontiera per raggiungere la Svizzera. “Se stai qui”, disse “finirai in un campo di concentramento tedesco”. Lo ascoltai e fu la mia fortuna. In Svizzera mi costituii come prigioniero politico. Venni collocato in un campo di raccolta dove mi trattavano benissimo. Anche lì mi servii della voce per farmi notare. Un caporale svizzero, che si era innamorato della mia voce, ma che cercava di fare la corte anche a me, volle accompagnarmi a Zurigo per un’audizione al Teatro di Stato. Cominciai a tenere concerti. Interpretai diverse opere a Radio Losanna. Incisi anche dei dischi per “La voce del padrone”, una casa di grande prestigio. Divenni così famoso che quando morì Franklin Roosvelt, presidente degli Stati Uniti, benchè fossi un soldato italiano e quindi appartenente a una nazione che era in guerra con gli Stati Uniti, venni chiamato dall’ambasciatore americano a cantare nella cattedrale di Berna nel corso di una cerimonia funebre in onore del presidente defunto.

<<Rientrai a Milano nel ‘45. Ormai sapevo che la mia voce valeva oro. Ero deciso a sfruttare l’occasione. Tornai a riprendere lezioni da Montesanto. Ma la fama di quello che avevo fatto in Svizzera si era già diffusa anche in Italia. Fui avvicinato da un celebre impresario, Carlo Alberto Cappelli, che mi offrì un contratto per dieci recite di “Manon” di Massenet. Accettai e il 20 aprile 1946 feci il mio debutto in un’opera, in Italia, sul  palcoscenico del Teatro Sociale di Reggio Emilia, ottenendo un successo strepitoso. Nove mesi dopo ero alla Scala e subito dopo al Metropolitan di New York. La mia carriera era partita con la velocità di un razzo e non si fermò più>>.

<<Per undici anni sei stato un fenomeno. Un astro incandescente. Il “tenore” per eccellenza. Tutti invidiavano il tuo modo di cantare naturale, spontaneo, facile. Poi, improvvisamente, il crollo. Che cosa ti era accaduto?>>.

<<La risposta è complicata. Prima di tutto, bisogna dire che io non ho mai avuto la vocazione di “fare soltanto il tenore”. Anzi, ho sempre odiato questo ruolo. Io ero un uomo che si divertiva a cantare. E quando non c’era il divertimento, si annoiava al punto da non cantare più. La maggior parte degli artisti lirici sono dei mercanti della propria voce. Cantano per far soldi. Quindi cercano di conservarsi, di mantenere in perfette condizioni la propria voce per guadagnare. Questo non è mai stato il mio caso. Non sono mai stato schiavo della mia voce. Non ho mai smesso neanche di fumare. Io ho sempre cantato per passione. Quando venivo scelto per interpretare un’opera importante, mi sentivo orgoglioso ma non ho mai discusso sul cachet. Però ero pronto a piantar tutto se qualcosa mi avesse irritato. Sono un tipo passionale ed emotivo. E i miei famosi capricci non erano frutto di superbia, ma crolli emotivi. Se non trovavo un’atmosfera distesa intorno a me, non riuscivo a cantare. Direttori d’orchestra famosi, come Toscanini, De Sabata, Serafin, Guarnieri, avevano capito questo mio carattere e mi mettevano nelle condizioni di dare il meglio di me stesso. Altri, invece, erano freddi e con loro stavo male. Così me ne andavo. Non ho mai litigato. Ma ho piantato un sacco di opera a metà.

<<La vera causa che interruppe la mia carriera fu un banale incidente. Un cantante, per essere bravo, deve restare senza soldi. Solo il tenore affamato ha la voce limpida e squillante. Il benessere porta alle comodità, al supernutrimento, al mal di fegato, alla distruzione della voce. Il benessere è stato la causa anche della mia crisi.

<<Nel 1958, all’apice della mia carriera, mi feci costruire una villa meravigliosa a Milano, nella zona di San Siro. Aveva tutte le comodità. Perfino l’aria condizionata, allora ancora molto rara, e il riscaldamento a pannelli, cioè con l’acqua calda che scorreva sotto il pavimento, che era una novità.

<<Nella mia villa mi sentivo un re. Quell’inverno cantavo alla Scala. Andai alla prima prova in piena forma. Ma dopo una mezz’ora improvvisamente la voce scomparve. Pensavo a un colpo di freddo. Tornai a casa e andai a letto. Il mattino dopo feci qualche gorgheggio e la voce era splendida. Andai alle prove ma dopo pochi minuti restai di nuovo afono. La cosa si ripetè nei giorni successivi. Dovetti interrompere l’opera. I giornali cominciarono a scrivere che ero finito. Accusavano il mio modo di cantare a voce spiegata, a gola larga. Dicevano che ero rovinato per sempre. Credetti ai giornali e provai a cantare stretto ma non servì a niente. Cominciò così una crisi spaventosa. La voce andava e tornava, capricciosamente senza che potessi dominarla. In quelle condizioni non potevo essere sicuro di me stesso. Per cinque anni continuai a studiarmi e a indagare sulle cause che mi procuravano quelle terribili afonie e finalmente scoprii l’origine delle mie disgrazie: ero una vittima del benessere. Ero ricco e avevo voluto nella mia villa quel nuovo riscaldamento a pannelli, che pochi potevano permettersi. E quel riscaldamento mi aveva rovinato. L’aria calda, passando sotto il pavimento ricoperto di moquette di naylon, asciugava l’umidità delle stanze. Io respiravo aria secca, la quale mi seccava le mucose della gola e dei bronchi. Cantando, in pochi minuti consumavo la riserva di umidità del mio apparato respiratorio e le corde vocali si irritavano lasciandomi afono. Quando scoprii questo, vendetti la villa, ma non servì a niente. Ormai era troppo tardi>>.

<<Poi, però, sei riuscito a riprenderti. Infatti, sei tornato a ottenere ancora grandi trionfi alla Scala e in tanti altri teatri>>.

<<E’ vero, ma da allora ho sempre avuto i critici contro. Hanno continuato a gridare che ero finito anche se avevo ripreso a cantare come ai vecchi tempi. Mi odiavano. Erano invidiosi perchè non avevo mai voluto ascoltare i loro stupidi consigli. E per molte persone la ripresa non è mai esistita.

 <<Ma chi se ne intendeva veramente di canto, si era accorto che avevo riacquistato la voce di un tempo. Nel 1974 ebbi una grande soddisfazione. Avevo 53 anni. Da otto i critici continuavano a tormentarmi dicendo che mi ero rovinato volendo cantare a modo mio. Me ne avevano dette così tante che io stesso mi ero convinto di essere veramente finito per sempre. Ma ecco che si fece avanti la più grande artista lirica in piena attività di quegli anni: Montserrat Caballè. Dopo avermi sentito cantare a un concerto, chiese di incidere un disco con me. La cantante spagnola in quel momento poteva fare quello che voleva. Essere richiesti da lei era un grande onore. E significava essere veramente bravi. Non volle uno di quei tenori giovani che in quel momento erano in auge. Scelse me. Il suo atto di stima mi diede l’entusiasmo dei tempi d’oro. Cantai divinamente e facemmo un disco stupendo. Io stesso non credevo di conservare una voce così incisiva. Ne fui molto felice perchè potevo dimostrare ai miei nemici che non avevo perduto la voce da cretino, come avevano scritto, ma che ero ancora Giuseppe Di Stefano>>.

<<Nel 1973 tu fosti protagonista anche di una serie di concerti che hanno fatto storia: la celebre tournée con Maria Callas che, grazie a te, era tornata a cantare dopo mi sembra otto anni di assenza dal palcoscenico>>.

<<In realtà si trattava di un ritorno per tutti e due. Lei non cantava da otto anni. Io ero sempre con la spada di Damocle della mia crisi sulla testa. Negli Anni Cinquanta eravamo stati una “coppia lirica” leggendaria. Ritornare a cantare insieme era un grosso avvenimento.

<<A chi venne quell’idea?>>.

<<Al destino. Noi artisti torniamo sempre sul luogo del delitto. Abbiamo trascorso gli anni migliori della vita sul palcoscenico e quando non possiamo respirare più la polvere del palcoscenico stiamo male. Sono convinto che tutti i cantanti lirici a riposo, anche i novantenni, sarebbero pronti a riprendere l’attività se ne avessero l’occasione. Io e Maria non ci sentivamo in età da pensione. Anche se qualche invidioso avrebbe voluto che fossimo al ricovero. Eravamo convinti di avere ancora qualcosa da dire al nostro pubblico e da insegnare ai giovani. Per questo decidemmo di tornare.

<<Il progetto era stato preparato con un anno di anticipo e l’inizio dei concerti doveva avvenire a Londra il 22 settembre 1973 nella Royal Festival Hall. Tutto era pronto. I biglietti per assistere al concerto erano esauriti da mesi ma una indisposizione di Maria ci impedì di rispettare l’appuntamento e così debuttammo ad Amburgo, che invece era la seconda tappa del tour.

<<Ad Amburgo trovammo un pubblico straordinario. Il grande Auditorium del centro dei Congressi, dove tenemmo il concerto, è un teatro con una acustica perfetta. Era esaurito in ogni ordine di posti, anche se il biglietto era molto caro. C’erano spettatori venuti da ogni parte del mondo anche dal Giappone. C’erano molti cari amici, come Liz Taylor con la figlia Liza, Rossellini, Patroni Griffi e al termine del concerto vennero in camerino per le felicitazioni>>.

<<Come reagì il pubblico durante quella tournée>>.

<<Con entusiasmo. Ovunque, ma soprattutto a Parigi, Londra e New York, dove Maria aveva ammiratori fanatici. La critica invece si mostrò ostile. Non era mai accaduto che cantanti famosi e tramontati, tornassero alla ribalta. Maria, negli anni in cui non aveva cantato, essendo vissuta accanto a Onassis, era stata un personaggio della cronaca mondana. Contro di lei c’erano pregiudizi e invidie, per questo i critici si dimostrarono cattivi>>.

<<E il tuo giudizio sulla Callas di quei concerti?>>.

<<Positivo. La Callas era ancora straordinariamente dotata. Certo, gli anni erano passati anche per lei, ma restava ancora una delle migliori cantanti. In America, durante alcuni concerti di quella tournée, cantò come vent’anni prima. Maria aveva un temperamento emotivo, aveva bisogno della presenza del pubblico per caricarsi. All’inizio, aveva paura, era insicura, poi prese forza, migliorando continuamente. All’ultimo concerto era perfetta. I critici cercarono il pelo nell’uovo dimostrandosi poco intelligenti. L’arte vera non sta nella nota emessa bene, ma nell’anima e nella passione. Maria metteva il fuoco nel suo canto, metteva irruenza, istinto, era proprio questo che la  distingueva da tutti gli altri. Quando cantava era un vulcano in eruzione>>.

<<Era un vulcano anche nella vita privata?>>.

<<Al contrario. Era semplice e umanissima. Non era una cantante ventiquattro ore al giorno. Se lo fosse stata, sarebbe stato impossibile vivere vicino a lei. Quando saliva sul palcoscenico, veniva rapita dalla furia artistica. Subiva una specie di choc. E andava soggetta a quei famosi “scoppi di temperamento” che la resero famosa in tutto il mondo>>.

<<E’ vero che durante la tournée avete litigato?>>.

<<Sì, è vero. Ma litigavamo per stupidaggini. Erano semplici scontri di due caratteracci. I “battibecchi” non avevano conseguenze. La mia grande ammirazione e la mia profonda stima per Maria mi impedirono sempre di tenerle il broncio. Anche negli anni d’oro della nostra carriera. Una volta, cantando con lei in Messico, piantai tutto e me ne andai. E così feci alla Scala, dopo la “prima” di Traviata, nel 1955. Ma me ne andavo senza rancore. Io mi arrabbiavo solo quando sentivo cantar male. Ma con la Callas questo non è mai accaduto>>.

<<Nel 1973 voi due insieme avete anche tentato un esperimento di regia, e la critica vi ha stroncato in modo violento>>.

<<Molto si è scritto sulla nostra regia dei “Vespri siciliani” per l’apertura del Nuovo Teatro Regio di Torino. Anche in quell’occasione, ai critici non pareva vero di poter prendersela con due famosi artisti. La nostra regia non fu brillante. Ma avevano mille scuse in nostro favore. Il teatro nuovo non era ancora finito. Avemmo poco tempo per provare. C’erano polemiche tra dirigenti e artisti. Ci fu anche l’improvvisa sostituzione del direttore d’orchestra. In mezzo a simili difficoltà, nessuno avrebbe potuto fare meglio di noi.

<<Ma la cosa importante che nessuno mise in evidenza  allora, sta nel fatto che noi volemmo esprimere una nostra concezione della regia di opere. I registi di quel tempo avevano delle teorie che noi non condividevamo. Loro volevano il movimento in scena. Mentre tenori e soprani cantavano, facevano passare sul palcoscenico pecore, cavalli, cani, storpi: di tutto, purchè di fosse movimento. Secondo loro, l’orchestra e il canto avrebbero dovuto fare da sottofondo alle scene, come la colonna sonora di un film. Niente di più sbagliato. Nell’opera lirica contano la musica e i cantanti. Noi tentammo di difendere l’opera lirica. Eravamo degli istintivi, forse non colti come gli altri registi alla moda, ma in fatto di musica pochi potevano parlare con cognizione di causa come noi due>>.

<<Su quella tournée corsero molte voci. Si disse che in realtà fu solo una scusa per nascondere un vostro grande amore. Tu non hai mai voluto parlare di questa vicenda. Ma ormai è passato tanto tempo, potresti chiarire finalmente i dubbi>>.

<<E’ un argomento che mi mette in imbarazzo>>, dice Di Stefano dopo una breve pausa di silenzio. <<Non mi sento a mio agio nelle conversazioni che coinvolgono i sentimenti più profondi. Ho l’impressione che a renderli pubblici si commetta una profanazione, per questo ho sempre rifiutato di affrontare questo tema.

<<Dopo la morte di Maria, tutti mi chiedevano di lei, della nostra vita insieme. Diversi editori volevano che scrivessi un libro, ma ho sempre rifiutato. Non ho mai voluto parlare di queste vicende. Neppure quando la mia ex moglie ha scritto un libro accusando la Callas di essere stata la rovina del nostro matrimonio. Non ho letto il libro nè mai ho risposto alle accuse.

<<Ma ci sono state poi alcune accuse ancora più gravi, che mi hanno ferito profondamente. Alcuni critici e alcuni biografi della Callas hanno scritto che io avrei approfittato della sua fama per farmi pubblicità; che avrei organizzato la famosa tournée del ‘73, quando la Callas non aveva più la voce di un tempo, solo per soldi, per vendere il suo nome. Sono accuse ignobili e ingiuste. La verità è che organizzai quei concerti per aiutare Maria a vivere e a tornare nel mondo del canto, dove forse poteva trovare ancora un po’ di felicità.

<<Quei concerti hanno rappresentato la “salvezza fisica” per la Callas e sono una testimonianza artistica estremamente interessante, come si può ricavare dalle incisioni che sono in circolazione. Io e Maria formavamo una coppia perfetta. Così perfetta che solo io mi ero accorto della disperazione in cui era caduta quando Onassis l’aveva lasciata per sposare Jacqueline Kennedy. Era stata dimenticata dal mondo artistico, dai suoi amici fasulli, dal jet set che l’aveva sfruttata quando era famosa. Maria si sentiva tremendamente sola e voleva morire. Io ho capito il suo dramma e le ho voluto bene proprio in quel periodo. Perchè sapevo che solo il canto avrebbe potuto darle speranza>>.

<<Quindi vi siete amati?>>.

<<Sì, ci siamo amati>>.

<<Come avvenne l’incontro fatale?>>.

<<Niente di straordinario, niente di fatale. Alla fine del 1972 io ero a New York di ritorno dalla Corea, dove avevo fatto una tournée. Gli organizzatori mi aveva chiesto di tornare con un soprano e mi avevano fatto il nome della Callas, offrendo per lei diecimila dollari a concerto. Maria non cantava da tempo e non pensavo neppure di riferirle quella proposta. Ma a New York, un comune amico a cui avevo confidato quel progetto, mi disse: “Telefoniamo subito a Maria che è qui”. Telefonò lui, ma la Callas non era in albergo e lasciò un messaggio dicendo che Di Stefano la stava cercando. Io allora le mandai dei fiori. Quella sera ero a casa dell’attore Ben Gazzarra che aveva organizzato una festa per me. A un certo momento la Callas telefonò. Disse a Ben che mi aveva cercato dappertutto e lui le rispose: “Te lo mando subito”. Non volevo lasciare la festa. Ben disse: “Maria è più importante”. Raggiunsi l’albergo e salii. Bussai alla porta di Maria che mi aprì con un grande sorriso e disse: “Lo so, tu mi hai sempre voluto bene”. E io: “Queste tue parole allora mi autorizzano a entrare”. Entrai e nacque la nostra avventura sentimentale>>.

<<Com’era la Callas allora? Come donna, intendo>>.

<<Distrutta, completamente a terra. Mi ripeteva: “Ogni giorno che passa è un giorno di meno che mi resta da vivere”. “Devi riprendere a cantare”, rispondevo. “Non ho più voce”, si lamentava. “Se canti, la voce tornerà”, ribattevo.

<<Il giorno dopo andammo dalla pianista con la quale ogni tanto studiava. Maria si avvicinò al pianoforte e tremava come una foglia. Cominciò a cantare e non aveva un fil di voce. Allora l’abbracciai e le dissi: “Usciamo, andiamo a fare una passeggiata al Central Park”. Piangeva, era tremendamente emozionata, era come un bambino spaventato. Non mi lasciava un momento. La sera successiva avevo un concerto a New York, e lei rimase sempre nel mio camerino>>.

<<Come l’hai convinta a tornare sul palcoscenico?>>

<<Mi resi conto che solo il canto poteva ridargli la voglia di vivere. Continuavo a ripetere che doveva vincere la paura e riprendere il contatto con il teatro. Poi tornai in Italia perchè dovevo cantare “Carmen” e lei venne a trovarmi a Sanremo, dove avevo un appartamento. Con la sua auto andammo alla spiaggia dove avevo la barca e scoprimmo che barca e auto avevano la stessa targa. L’auto: Parigi 1345. La barca: Imperia 1345. In quel particolare Maria vide un segno del destino. Si legò ancor più a me e accettò di fare una tournée di concerti>>.

<<Il vostro fu vero amore?>>

<<Fu grande amore. Avevamo un’intesa perfetta che ci permetteva nello stesso tempo di restare liberi. La nostra non era solo passione, la nostra era tenerezza infinita, complicità artistica ad altissimo livello, voglia di rivincita, amore maturo. Un’avventura che non si può descrivere e che non ho mai dimenticato>>.

<<Ma poi, se non sbaglio, è finita male>>.

<<Durò tre anni. Maria non era una donna facile. Aveva un carattere complicato. Non seppe accontentarsi, aspettare. La vita è sempre un imprevisto. Nessuno sa mai perchè avvengono tante cose. Io e Maria non avevamo preventivato di incontrarci e non pensavamo che andasse a finire come è finita>>.

<<Quando ti sei accorto che la vostra storia si stava deteriorando?>>.

<<Il giorno in cui mi sono sentito tanto felice. Mi pareva che la nostra intesa fosse proprio perfetta. E subito mi sono detto: “E’ troppo bello, non può durare”. Maria, quando amava, era possessiva, invadente, affamata e gelosa. Aveva una gelosia feroce, cieca. Era peggio di Otello. Credo che sarebbe stata capace di uccidere per gelosia. Ero ancora sposato e lei era gelosissima di mia moglie. Non perdeva occasioni per punzecchiarmi provocando reazioni dolorose>>.

<<Perchè, data la situazione, non ti eri diviso da tua moglie?>>.

<<In quel periodo stavo vivendo un terribile dramma familiare. Avevo una figlia, Luisa, di 19 anni ammalata di tumore, che poi morì. Maria mi restò vicina in quella tragedia ma non seppe attendere. Doveva capire che quello non era il momento per pensare a divisioni, separazioni o cose del genere. Bisognava attendere che il tempo rimarginasse le ferite. Ma come ho detto, lei agiva d’impulso come una bambina, commettendo gravi errori che io non potevo accettare>>.

<<Per esempio?>>.

<<Voleva che tutti sapessero della nostra situazione.  Durante la tournée, dopo una serie di concerti in giro per l’America, tornammo a New York per un concerto in quella città. C’era grandissima attesa. Tutti ci aspettavano con il fucile puntato, per controllare se eravamo all’altezza della nostra fama. Bisognava restare concentrati, pensare solo al canto. Invece lei si distraeva. Accettò di fare un’intervista alla televisione per parlare degli uomini della sua vita. Raccontò che erano tre: il marito, Giovan Battista Meneghini, Aristotele Onassis ed io. Venne ad avvertirmi che la televisione avrebbe mandato in onda quell’intervista e io andai su tutte le furie.

<<Sapevo che una notizia del genere avrebbe scatenato la stampa. Allora presi il telefono chiamai mia moglie a Milano e la feci venire immediatamente a New York. Successe il finimondo. La Callas era inviperita. A mia moglie non sembrava vero di poterla fare arrabbiare. Alla fine la Callas cedette, si riempì di barbiturici e si svegliò alle cinque del pomeriggio del giorno dopo, incapace di reggersi in piedi. E così non si fece il concerto.

<<Ero fuori di me. Le dicevo: “Tu sei la Callas, tu rappresenti il canto, non puoi permetterti cose del genere”. Ci siamo arrabbiati. Lei ha fatto alcuni concerti da sola poi siamo tornati insieme. Ma ne ha subito combinata un’altra. Mentre ci preparavamo a cantare, a mia insaputa, chiamò l’organizzatore e gli disse: “Continuerò la tournée solo se la moglie di Di Stefano torna in Italia”. Quando lo venni a sapere persi le staffe. Non potevo ammettere che fosse ricorsa a un estraneo per dare ordini a mia moglie. Se voleva mandarla via doveva ricorrere a me. Non la perdonai. Capì di aver sbagliato e venne a chiedermi scusa. Ci riconciliammo e finimmo la tournée ma ormai qualcosa tra noi si era incrinato per sempre. Al termine della tournée era finita anche la nostra intesa sentimentale. Almeno decidemmo noi di mettere fine a quella vicenda>>.

<<Nella tua lunga carriera hai conosciuto tanti artisti grandissimi: chi ti ha colpito di più?>>.

<<La Callas resta un personaggio unico. Io credo che, con il passar del tempo, la sua fama andrà aumentando e la gente scoprirà che la sua capacità artistica era veramente somma. Un altro personaggio che mi ha profondamente affascinato fu Arturo Toscanini. Averlo conosciuto e aver cantato con lui è stata una autentica fortuna. Lo adoravo. Ma poichè sapevo che aveva un caratteraccio non volevo cantare con lui: temevo perdesse la pazienza e mi costringesse a mancargli di rispetto. Lui mi cercava e mi voleva, ed io lo sfuggivo.

<<Un giorno, all’inizio della carriera, arrivai a New York. Appena salito in camera, in albergo, squillò il telefono. Rispose il mio maestro, il baritono Montesanto. Era Toscanini al telefono. Mi aveva sentito cantare alla radio e disse: “Quel ragazzo canta come piace a me, senza smancerie, questa sera lo voglio qui a casa mia”. Non potei rifiutare. Diventammo subito amici. L’anno successivo mi voleva per il ruolo di Felton nel “Falstaff” di Verdi, ma io ero occupato e non potei andare. Nel  1951 mi richiamò per il “Requiem” di Verdi che diresse alla Carnee Hall di New York  in occasione dei cinquant’anni della morte del maestro e fu un’esperienza bellissima.  Ricordo che durante le prove si faceva portare dei grossi salami: li affettava lui stesso per farceli mangiare a merenda. Con noi cantanti era come una madre. Al termine di quella esecuzione, ,o regalò  una medaglia d’oro. Su un lato vi è il volto del compositore e sul rovescio la dicitura: “A Giuseppe Di Stefano in ricordo” e la firma autografa di Arturo Toscanini.

Di Stefano mi fa vedere la medaglia che porta al collo. <<Non me ne separo mai>>, mormora stringendola tra le dita..

<<Dicono che tu ami molto il gioco?>>.

<<Purtroppo è vero. Mi piace giocare e al gioco ho perso una fortuna. Io gioco solo alla roulette. E’ un gioco dove conta solo la fortuna, il caso. Non ci vuole nessuna partecipazione del cervello. Non ho mai giocato a poker, nè a “chemin de fer”. Non mi piace giocare contro la gente. Nella roulette invece si gioca contro la macchina e questo mi affascina. Alla roulette è facile vincere. C’è sempre un momento in cui si guadagna. Basterebbe fermarsi in quel momento per evitare disastri economici, ma io non ho mai saputo resistere alle tentazioni e così ho perduto miliardi. Quando comincio a giocare ci sto giorni e notti intere. Vengo preso dal vortice di quella pallina che gira. Non riesco a sottrarmi al suo influsso. Mi sembra un diavolo che a volte mi parla, mi incita, mi promette vincite, mi caccia via.

<<Sulla porta di casa mia, a Sanremo, c’erano segnati tre numeri: uno, zero, tre. Sono combinazioni che mi hanno sempre fatto impazzire. Quasi sempre, quando viene fuori l’uno subito dopo viene fuori lo zero e poi il tre. Oppure, prima viene il tre poi lo zero poi l’uno. Questi numeri mi hanno mangiato un sacco di soldi. Ma sapere che quasi sempre si verificano queste misteriose combinazioni, è una cosa estremamente affascinante alla quale non sono mai riuscito a resistere. Del resto se fossi diverso, non sarei Pippo Di Stefano>>.

<<Giochi ancora?>>.

<<E come no? In Africa, vicino a dove abito, c’è un casinò. Il lupo perde il pelo, il vizio mai!>>.


Questa l’intervista che Giuseppe Di Stefano mi diede allora. Ha continuato a vivere felice con la moglie  Monika. D’inverno emigrava in Kenia e d’estate tornava per alcuni mesi in Italia. Ci telefonavamo. L’ultima volta lo vidi   nel novembre del 2004. Andai a salutarlo perché partiva per il Kenia.

<<Ci rivedremo in primavera>>, gli dissi abbracciandolo.

<<Tornerò come sempre con le rondini>>, rispose felice.

Non lo vidi più.

Partì per il Kenia il 29 novembre al mattino. Arrivò nella sua villa a Mombasa nel pomeriggio.   Era con la moglie e un amico.  Stanchi per il viaggio, andarono a riposare un paio d’ore. A sera, si prepararono per andare a cena in un ristorante. Uscirono di case e videro nel giardino degli indigeni che venivano verso di  loro correndo. Di Stefano li salutò festoso. Pensava fossero dei suoi ammiratori che venivano a dargli il benvenuto, come accadeva sempre quando arrivava per le vacanze. Invece, erano dei banditi, dei ladri. Estrassero delle rivoltelle e sotto la minaccia delle armi tolsero a lui, a sua moglie Monika e all’amico italiano, tutto ciò che avevano di prezioso: orologi, denaro, anelli,  bracciali, catenine <<Stiamo calmi>>, ripeteva Di Stefano, sapendo che anche una minima reazione poteva provocare una tragedia. Ma quando un bandito tentò di colpire uno dei suoi cani, reagì si prese un violento pugno in faccia. Poco dopo, il bandito tentò di strappargli la medaglia di Toscanini  e Di Stefano gridò “no, questa no” cercando di proteggerla con le mani, ma il  bandito lo  colpì violentemente e il tenore  perse l’equilibrio e cadde per terra battendo la testa. Il bandito infierì ancora contro di lui con dei calci, poi gli strappo la catenina con la medaglia d’oro di Toscanini e fuggì con i suoi complici.

Di Stefano aveva perso i sensi. Lo portarono all’ospedale. Era in coma. Fu operato al cervello. Dopo un mese venne trasferito in Italia. Uscì dal coma, ma non  si riprese. Da allora, è vissuto immobile, senza memoria, senza poter parlare, in una specie di coma vigilie, e doveva essere alimentato da  una macchina.

Per fortuna ha sempre avuto accanto la moglie, Monika Curth, soprano tedesco, che aveva sposato in seconde nozze.  Un vero angelo che non ha mai abbandonato il tenore infermo neppure per un momento. Per più di tre anni è stata la sua infermiera, pronta a servirlo personalmente in tutto, giorno e notte e sempre con amore infinito e il sorriso sulle labbra. Inseparabili, fino all’ultimo respiro che di Stefano ha emesso alla 8.30 di lunedì 3 marzo,  2008, mentre Monika gli accarezzava il volto.

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