Alla vigilia di compiere cent’anni, è scomparsa a Roma una delle più grandi cantanti liriche dei Novecento

GIULIETTA SIMIONATO

UNA STORIA INFINITA

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di Renzo Allegri - Foto di Nicola Allegri

 

Giulietta Simionato, celeberrima cantante lirica, se ne è andata. All’alba del 5 maggio ha smesso di abitare in questo mondo. Le mancavano esattamente sette giorni per compiere 100 anni, essendo nata a Forlì, il 12 maggio 1910.

Dotata di una voce unica, armoniosa, colorita, ampia, che le permetteva di affrontare con indifferenza le note acute come quelle gravi, Giulietta Simionato è stata la Callas del registro mezzosoprano. Come la “divina”, era, pure lei, in palcoscenico, anche una straordinaria attrice. Le sue interpretazioni di Carmen, di Azucena nel “Trovatore”, di Amneris nell’ “Aida”, di Jane Seymour in “Anna Bolena” restano indimenticabili.

Le cronache musicali del tempo sono piene di articoli che inneggiano ai suoi trionfi. Una volta alla Scala, dopo un duetto con Franco Corelli, ebbe 45 minuti di applausi..

Maria Callas la voleva spesso al suo fianco. I direttori d'orchestra se la contendevano. I teatri di tutto il mondo la corteggiavano.

La vidi la prima volta sul palcoscenico dell’Arena di Verona nel luglio del 1965, in “Carmen” . Ultima Carmen della sua fulgida carriera. Con lei cantavano Mirella Freni, Gastone Limarilli, Giangiacomo Guelfi e dirigeva Nino Sanzogno, con la regia di Luisillo, indimenticato coreografo e ballerino spagnolo. Giulietta Simionato, che aveva 55 anni, fu una Carmen scatenata e applauditissima. Sembrava nel pieno della giovinezza. Era reduce da trionfali successi alla Scala di Milano e allo Staatsoper di Vienna, e nessuno avrebbe immaginato che, alla fine di quell’anno, si sarebbe ritirata dalla carriera.

<<Stavo vivendo un periodo sereno e molto bello della mia vita privata>>, mi raccontò in seguito Giulietta Simionato. <<Ed ho voluto assaporarlo in pieno, rinunciando quindi al lavoro. E’ vero, nella mia carriera ho avuto trionfi, sono stata esaltata dai più esigenti critici, ho raggiunto una grandissima popolarità, ma quante lacrime! Ho voluto quindi andarmene dal palcoscenico, anche se la mia voce era ancora perfetta, per poter godere quel periodo di felicità che finalmente mi era arrivato>>.

Un giorno le dissi: <<Forse poche artiste liriche hanno avuto una carriera osannata come la sua. Cosa prova pensando a quegli anni pieni di gloria, di trionfi, di applausi, di successi?>>.

Mi guardò in silenzio. Mi fissò dritto negli occhi e il suo viso divenne triste. Disse: <<Vuole sapere la verità? Ma proprio quella autentica? Non quella "bella" che si legge sempre nelle biografie delle persone famose? Ebbene, allora devo deluderla. Quegli anni di successi e di trionfi per la cantante Giulietta Simionato, sono stati anni di inferno per la donna Giulietta Simionato. La gente mi applaudiva, mi lodava, mi esaltava, ma io ero piena di problemi, di complicazioni sentimentali, di situazioni ingarbugliate che rovinavano ogni soddisfazione. Non ho avuto molta felicità dalla vita. Non ho goduto i miei successi. Solo in tarda età ho trovato serenità e gioia. Dopo aver abbandonato le scene>>.

Abbassò lo sguardo tagliente. Rimase pensierosa. Forse era commossa. Il grande salone della sua bella casa milanese dove stavamo conversando, al quarto piano di un vecchio palazzo nel cuore di Milano, a pochi passi dalla Scala, era immerso in un silenzio irreale, quasi ostile.

Dopo qualche minuto, durante il quale non riuscii io stesso a trovare le parole per rompere quall’atmosfera triste, la Simionato, imponendosi un sorriso mal riuscito, aggiunse: <<Sono una persona semplice. Non ho mai avuto grandi ambizioni e neppure mi ero proposta di raggiungere affermazioni clamorose. Mi sono sempre accontentata di poco. Ma sembra quasi che io sia stata perseguitata da un destino avverso>>.

Era nata per essere regina. Regina del canto, regina dei teatri, in particolare quello della sua patria, il teatro alla Scala. Lo diventò, ma lottando strenuamente, e a lungo, senza cedere mai allo sconforto, e alla fine vinse. Divenne una vera regina. Amabile, dolce, serena. Ammaestrata dalle lunghe sofferenze, si è sempre tenuta lontana da atteggiamenti vistosi, superbi, scostanti, che contaminano spesso i vincitori. Facendosi invece ammirare e amare per il comportamento misurato, riservato, rispettoso, proprio delle regine di rango, quelle che hanno l’animo solenne e timido insieme.

Una donna grande. Dotata fin da bambina di una sensibilità raffinata. Di un raro senso della bellezza e dell’arte. Di una profonda interiorità religiosa. Doni che testimoniano come l’essere umano ha dentro di sé una scintilla divina. Ma doni che infallibilmente si scontrano con la realtà gretta, cinica, per certi versi crudele del quotidiano che li vuole distruggere. E per salvarli, bisogna ingaggiare furibonde battaglie.

La grandezza artistica di Giulietta Simionato affonda le sue radici in quei doni che ha sempre difeso come bene supremo. Mi disse un giorno un’amica: “La Simionato canta con l’anima”. Giudizio perfetto. Credo che questa artista non abbia mai pensato a “far carriera”. Ha cercato con tutte le sue forze di trovare il modo per poter esprimere ciò che aveva nell’animo. Ha cercato spasmodicamente di rivelarsi, di realizzarsi attraverso quei doni che le erano stati regalati generosamente.

L’arte, per lei, significava “vivere”. E poiché in questo suo anelito è stata, per molti anni, i migliori e i più vulnerabili della sua vita, ostacolata con ogni mezzo, ha sofferto in modo terribile. Una sofferenza che ha lasciato ferite profonde al punto che, valutando la propria esistenza, al termine della sua lunga strada costellata di trionfi, ricordava più le sofferenze che non i successi.

Ho intervistato Giulietta Simionato molte volte. In varie occasioni ho raccontato le vicende della sua vita e della sua carriera. Una vita incredibile, da romanzo, dove i grandi successi si mescolano con sofferenze, lacrime, delusioni, sconfitte. Giulietta non amava parlare di se stessa, ma quando riusciva a farlo, i suoi ricordi erano soprattutto tristi. Spesso ripeteva: “Se mi guardo indietro, vedo molte più sofferenze che gioie”. Ma non aveva rancori, odi, recriminazioni. Il suo animo profondamente buono aveva elaborato un perdono generale e, pur leccandosi tante ferite, ricordava tutto con serenità. E ora che se ne è andata, per rendere un omaggio sincero a questa grandissima artista e straordinaria donna, voglio ricordare alcuni passi di quei suoi lunghi racconti biografici


«Appartengo a una famiglia veneto-sarda>>, mi raccontava parlando della sua infanzia. <<Mio padre, Felice, era nato a Mirano, in provincia di Venezia, ma ancora giovane si era trasferito in Sardegna, dove si era laureato in Giurisprudenza e aveva vinto un concorso di funzionario dello Stato. Mentre svolgeva il suo lavoro a Tempio Pausania, in Sardegna, sposò mia madre, Giovanna, figlia di un proprietario terriero.

<<Io nacqui a Forlì, il 12 maggio 1910 perché, mio padre in quel periodo, era stato trasferito in quella città. Mia madre lo aveva seguito, ma l'aria del continente era nociva alla sua salute e le provocava tremende emicranie. Così, 40 giorni dopo la mia nascita, tornò a casa e papà ci raggiunse in seguito, quando riuscì a farsi trasferire>>.

Famiglia benestante, unita, ideale per la felicità di una bambina. Ma a volte le apparenza ingannano. Giulietta non ebbe una infanzia felice.

<<Mio padre era una persona dolcissima, affettuosissima, mia madre, invece, un carabiniere>>, raccontava. <<Una donna buona a modo suo, ma durissima nell'educazione dei figli. Non ricordo di aver mai ricevuto da lei un bacio o una carezza. Riteneva che queste manifestazioni d'affetto rammollissero il carattere. Per principio diceva sempre "no". Se commettevamo qualche mancanza, ci puniva con estrema severità>>.

Il primo guaio arrivò quando aveva circa un anno.

<<Caddi sbattendo la testa. Il colpo mi causò una specie di epilessia, che condizionò e turbò profondamente la mia esistenza per diversi anni,
<<Naturalmente non ricordo niente di quell’incidente, ma i dettagli mi furono riferiti molte volte in famiglia. Avevo una sorella, Regina, e un fratello, Carlo, più grandi di me. Regina mi adorava ed era felicissima di prendermi in braccio, ma mia madre non voleva. Così Regina approfittava di farlo quando mamma non era in casa.

<<Un giorno, dopo aver convinto la nurse a permetterle di prendermi dalla culla, Regina mi portò in giardino, mi fece sedere nell'erba e si mise a giocare con me. Non si è mai saputo come sia successo, ad un certo momento io riuscii ad aggrapparmi a una sedia e a tirarmi su. Ma poiché non sapevo ancora camminare, caddi battendo la testa su una pietra. Mi raccontarono che cacciai un urlo, poi rovesciai gli occhi diventando rigida come un pezzo di ghiaccio.

<<Mia sorella cominciò a gridare disperata. Accorsero la nurse e i vicini. Io ero sempre immobile, come morta. Venne chiamato il medico e fui ricoverata all'ospedale dove finalmente mi ripresi. Ma quella botta aveva leso una parte delicata del mio cervello. Ogni più piccola emozione mi provocava quello stato di perdita di coscienza con rigidità fisica, che spaventava tutti. Fui visitata da specialisti, ma nessuno riuscì a guarirmi. Il medico aveva raccomandato che, in casa, nessuno dovesse mai contraddirmi. Se avessi chiesto la luna, dovevano accontentarmi, altrimenti, mettendomi a piangere, mi sarebbero venute quelle crisi pericolose.

<<La colpa dell’incidente fu data a mia sorella Regina, che pagò duramente. Mia madre la tenne per tre giorni legata al letto e non so per quanto tempo fu privata del dolce e della frutta a tavola. A pensarci, sono cose assurde, disumane; ma a mia madre sembravano giuste>>.

Probabilmente la signora Giovanna era a sua volta vittima di vecchie concezioni religiose di ispirazione giansenista. Cosa non rara in antiche famiglie cattoliche borghesi dell’Ottocento. In particolare in Sardegna e nell’Italia del Sud, dove vigeva una specie di matriarcato. La madre, era responsabile totale della educazione dei figli, i quali dovevano avere, nei confronti dei genitori un atteggiamento riservato, di rispetto severo. Per questo la signora Giovanna non esternava mai il suo affetto con baci e carezze, anche se certamente voleva molto bene ai suoi figli. E le punizioni fisiche, anche molto severe, cui ricorreva, non erano per lei “segno” di crudeltà, ma “mezzo” indispensabile per “domare” le cattive inclinazioni dei piccoli che avrebbero potute condurli alla perdizione.

Grazie proprio a quell’incidente di quando non aveva ancora un anno, Giulietta potè godere in famiglia di un trattamento di favore. Il medico aveva raccomandato che non dovesse mai subire emozioni e quindi le venivano risparmiati ramanzine e punizioni. E poi c’era la presenza del nonno materno che, in fatto di affettuosità, assomigliava più al signor Simionato che alla propria figlia Giovanna.

<<Mio nonno possedeva una grande campagna e ogni giorno andava a vedere come procedevano i lavori>>, mi raccontò Giulietta. <<Spesso mi portava con sé. Il medico aveva detto che stare all'aria aperta, tra il verde, faceva bene alla mia salute. Giocavo con i figli dei mezzadri. Salivo sugli alberi, ascoltavo rapita i canti dei contadini. Avevo imparato tutte le loro nenie. Insomma, nonostante mia madre fosse un cerbero, crescevo spensierata e selvaggia>>.

Giulietta, in quegli anni, era lieta e felice soltanto fuori casa, a contatto con la natura. Correre per i campi, osservare le piante, gli animali domestici, gli uccelli, ma anche i lombrichi, gli insetti, era una vera gioia per lei. Tutto le piaceva e tutto suscitava nella sua mente grande meraviglia.

Il nonno le aveva regalato un cavallino, al quale era stato dato il nome di Pariggeddu ed era subito diventato un compagno inseparabile di Giulietta, sul quale galoppava all’impazzata per i poderi di famiglia. In aperta campagna, Giulietta amava fermarsi ad ascoltare i canti dei contadini al lavoro. Allora non c’erano le macchine agricole che facilitavano i lavori, soprattutto alcuni, come la vendemmia, la mietitura, la raccolta delle olive che dovevano essere eseguiti in tempi brevi. Il risultato delle attuali macchine, in grado di svolgere un enorme lavoro in breve tempo, era allora ottenuto con l’impiego di molte persone. In certi periodi dell’anno, i campi erano invasi dalla mattina all’alba fino al tramonto da gruppi di contadini che lavoravano insieme. E per esorcizzare la fatica, che sotto il sole afoso diventava a volte pesantissima, o anche solo per dare un certo ritmo al loro lavoro, cantavano. Cori semplici, caratteristici e incantevoli.

Si spandevano per le vallate silenziose. Un patrimonio musicale purtroppo perduto. Ma chi aveva la fortuna di ascoltare quei canti, ne rimaneva affascinato. Soprattutto se era dotato di una speciale sensibilità musicale, come era appunto Giulietta. Infatti, ricordava spesso quelle scene, quei canti. E raccontava che, rientrando, dopo quelle passeggiate, tra le mura domestiche dove avrebbe dovuto trovare il calore dell’affetto, trovava invece la freddezza della disciplina militaresca, e allora si chiudeva in qualche stanza remota della casa e dimenticava il grigiore di quella assurda situazione ripetendo le nenie dei contadini, nenie che aveva imparato a memoria e che furono i suoi primi importanti esercizi di canto. Anch’essi, però, molto contrastati, non solo dalla madre, che non amava sentir cantare, ma anche dalla sorella Regina che rimproverava Giulietta di avere una voce stridula e brutta.

Nel 1918, Giulietta aveva otto anni e frequentava già la quarta elementare. Un giorno suo padre tornò a casa preoccupato. Aveva ricevuto la comunicazione di un nuovo trasferimento in continente. Questa volta era stato assegnato a Rovigo. Un trasferimento che era un premio alla sua professionalità. Il dottor Simionato aveva risolto diversi casi spinosi, nell’ambito dei suoi impegni. Era una persona molto affettuosa e comprensiva, ma anche un uomo che sapeva governare le situazioni difficili con polso fermo e mente lucida. Per questo, quando nelle carceri c’erano difficoltà, veniva incaricato di trattare e aveva risolto pacificamente diversi contrasti. Il trasferimento in continente era quindi un atto di fiducia e una promozione.

Il problema però per il dottor Simionato era costituito dalla salute della moglie. Il precedente trasferimento in Italia aveva acuito i suoi numerosi malesseri, in particolare la fortissima emicrania, al punto che era stato necessario, su consiglio dei medici, farla tornare precipitosamente in Sardegna.. La salute della signora Giovanna era sempre cagionevole e Felice Simionato temeva un nuovo tracollo. Però non poteva continuare a sottrarsi ai doveri del suo lavoro e, pur a malincuore, accettò le disposizioni dei superiori.

Giulietta allora, a 8 anni. Non aveva nessuna cultura musicale specifica. Nessun precedente in famiglia che potesse indicare che avrebbe intrapreso la carriera di cantante. Anzi, semmai c’era una mentalità fortemente contraria al canto, soprattutto da parte della madre. Ma in Giulietta si era già timidamente manifestata una particolare sensibilità musicale. I canti tradizionali sardi, che lei aveva ascoltato dai contadini mentre lavoravano nei campi, ed elaborato nella sue mente ripetendoli per propria passione, avevano acceso un focherello che, a Rovigo, sarebbe diventato un incendio. Si può affermare che Giulietta Simionato, venuta in questo mondo a Forlì, cresciuta per i primi otto anni in Sardegna, sia nata al mondo musicale, proprio a Rovigo.

<< Arrivata a Rovigo continuai la scuola presso il Collegio delle Suore di Maria Bambina, dove mi inserii senza alcuna difficoltà>>, mi ha raccontato. << Poi iniziai le magistrali alla scuola pubblica. Ma l'impegno era troppo gravoso per la mia salute, che era rimasta fragile.
<< Dopo un anno, il medico consigliò a mio padre di tenermi a casa. Ripresi a frequentare il collegio delle suore, senza alcun impegno, solo per passare il tempo. Le suore insegnavano a disegnare, a ricamare, a dipingere e io mi trovavo bene con loro. A volte, sostituivo qualche suora nella sorveglianza dei bambini più piccoli. Insegnavo loro le poesie.

<< Avevo un formidabile spirito di osservazione: guardavo come i bambini recitavano le poesie, io poi li imitavo alla perfezione facendo divertire le religiose. Mi piacevano molto i bambini e il mio sogno era diventare una maestra d'asilo>>.

Le prime persone ad accorgersi che la piccola Giulietta aveva una voce eccezionale furono le suore dell’Istituto che frequentava. In particolare una suora che si chiamava come la futura cantante, Suor Giulia. E fu in quell’Istituto che iniziò la grande avventura musicale di Giulietta Simionato. L’apprendimento delle prime nozioni di canto, gli esercizi per una corretta dizione, il contatto con il pubblico attraverso gli spettacolini del collegio, poi l’inserimento in un vero coro, l’incontro con due bravi insegnanti, il debutto in teatro. Tutto attraverso incredibili difficoltà. Un percorso a ostacoli così complicati che parevano insormontabili.

<<Non fui io a scoprire la mia vocazione per il teatro, le mie doti vocali, ma furono gli altri ad accorgersi che Dio mi aveva dato questi doni e a spingermi con insistenza a realizzarli>>, mi raccontava Giulietta Simionato.

<< Amavo cantare. Avevo un orecchio perfetto e imparavo qualsiasi canzone con facilità. Mia sorella cantava i motivi in voga in quegli anni e io la imitavo. In casa non sopportavano la mia voce. Dicevano: "Taci con quella voce stridula che fora le orecchie". Io non riuscivo a trattenermi, e mi chiudevo nel bagno per dare sfogo a questo mio desiderio di cantare.

<<Cantavo anche dalle suore e tutte dicevano che ero brava. Mi facevano partecipare ai loro spettacoli. Non lo dissi mai in casa, per paura che me lo impedissero. Cantavo come avevo imparato dai contadini sardi, cioè con la bocca chiusa e i denti stretti. “Non va bene”, mi diceva suor Giulia. E fu lei la mia prima insegnante. Mi faceva mettere un turacciolo di sughero in bocca e poi fare una serie di rudimentali vocalizzi. Alla sera, avevo le mandibole anchilosate ma in un paio di settimane imparai ad articolare le parole e diventai brava.

<<A Rovigo c'era un coro importante, che ogni anno teneva concerti. Qualcuno raccontò al direttore, il maestro Cremesini, che dalle suore c'era una ragazzina con una voce stupenda e lui mandò una sua assistente da mia madre a chiederle di permettermi di andare a cantare nel coro. “Mia figlia cantante?”, rispose mia madre scandalizzata. “Mai, piuttosto l'ammazzo”

<< La reazione violenta e intransigente di mia madre era motivata dal fatto che, a quei tempi, soprattutto in Sardegna, la cantante era considerata una donna perduta, di facili costumi. Spaventata da quella reazione, la rappresentante del maestro Cremesini si ritirò senza fiatare.

<<Un anno dopo, mia madre morì. Avevo sedici anni. Benché non fosse mai stata tenera con me, soffrii moltissimo per quella perdita.

<<Il maestro Cremesini pensò di tornare alla carica per avermi nel suo coro, ma anche mio padre rifiutò. “Mia moglie era contraria”, disse “e io non voglio prendere una decisione che lei non avrebbe mai approvato”.

<< Passò ancora un anno. Il maestro tornò da mio padre. “Sua figlia ha dei doni eccezionali”, disse “è un peccato non coltivarli. Fare la cantante potrebbe essere la sua strada”. Questa volta mio padre si lasciò convincere e così entrai a far parte del coro.

<<Come ho detto, avevo un orecchio eccezionale. Dopo le prime prove, sapevo tutto a memoria. Un giorno, mentre eseguivamo una frase piuttosto impegnativa, con note acute difficili, mi lasciai andare e mi ritrovai sola a eseguire, a pieni polmoni, quelle note. Il maestro si girò verso di me guardandomi sorpreso. Io, che ero sempre sospettosa, mi vergognai. “Brava, brava”, disse il maestro, “vieni un po’ qua, fatti vedere”..

<< Temevo un rimprovero e non mi mossi. “Vieni, non ti mangio mica”,, disse lui. “No”, , risposi ostinata. Cremesini tentò con i modi più gentili di spiegarmi che ero stata brava e che desiderava riascoltare quelle note difficili. Ma io credevo di aver commesso un errore e, poiché ero tremendamente orgogliosa, rimasi al mio posto con gli occhi bassi. Tornai a casa furibonda e decisi di non andare più a cantare. La mia esperienza nel coro era durata solo pochi giorni.

<< Il Maestro Cremesini si era reso conto che la mia voce era un vero dono di natura. Poiché in quella zona del Veneto c'è una venerazione per il canto lirico, decise di fare di tutto perché tornassi a cantare. Dopo qualche settimana venne da mio padre e si offrì di darmi lezioni gratis. Cercò di chiarire l'equivoco delle "note alte", e riuscì a convincermi.

Superati gli ostacoli “esterni”, quelli della contrarietà materna e poi paterna, ce n’era un altro non meno duro: quello costituito dal carattere della stessa Giulietta. La rigida e fredda educazione ricevuta dalla madre aveva esasperato la sensibilità di Giulietta. Istintivamente lei cercava nella madre fiducia, affetto, comprensione e aveva invece trovato disciplina, punizioni, rifiuto di ciò che sentiva come una realizzazione di se stessa.

Era diventata paurosa, sospettosa, timorosa, insicura. Vedeva negli altri soltanto nemici e percepiva ogni più piccola osservazione, come un attacco, un attentato. Il canto corale è un’arte di gruppo. La perfezione si raggiunge lavorando insieme e cercando insieme di eliminare i difetti. Nello stato psicologico in cui Giulietta si trovava era quasi impossibile per lei entrare in quest’ordine di idee. Ma se non avesse superato quegli ostacoli, anche se brava, bravissima, dotata di grandi doni vocali, non avrebbe mai potuto cantare in teatro. Per fortuna incontrò le persone giuste. Non solo dei bravi musicisti, ma anche degli abili psicologi che seppero capirla, e a poco a poco cambiarla.

<<Alla scuola di Cremesini>>, mi racconto la Simionato <<c'erano altre allieve brave. Dopo un po', io le avevo raggiunte e superate.

<<Furono organizzati due spettacoli al Teatro Sociale, dove cantai anch'io. Il primo fu “Hansel e Gretel”, e io feci la parte di Hansel; il secondo si intitolava “Il ciottolino”. Mi piaceva la parte principale, ma Cremesini la affidò a una mia compagna che forse aveva la voce più adatta. Io però mi offesi a morte, e ancora una volta troncai lo studio decisa a non riprenderlo più.

<< Rovigo era, allora, una città piccola. Ormai tutti sapevano che avevo una bella voce e si sentivano responsabili del mio avvenire. La mia sarta era amica di un altro maestro di musica, Ettore Lucatello, e un giorno mi disse che questi sarebbe stato felice di darmi lezioni. “Non ne voglio più sapere”, risposi. “Ma tu hai una voce meravigliosa, stupenda, non devi trascurarla”,, replicò la sarta e aggiunse: “Se vai a scuola da Lucatello, ti regalerò un bel vestito per il tuo primo concerto”. La sarta aveva toccato il tasto giusto: ero molto sensibile ai bei vestiti. Risposi: “Ma io voglio fare solo la protagonista”. “Lucatello ti farà fare solo la protagonista”, mi assicurò la sarta.

<< Il maestro Lucatello era un personaggio straordinario. Insegnava canto, pianoforte, violino, tromba, componeva e dirigeva la banda. Mi risultò simpatico. Riuscì a farmi cantare subito e rimase sbalordito dalla qualità della mia voce. “Ti insegnerò delle belle romanze e faremo dei concerti”,, disse. “Ci sarai solo tu, e perciò sarai la protagonista”, aggiunse ricordando perché avevo litigato con il maestro Cremesini. La sua promessa mi fece sorridere di soddisfazione.

<<Lucatello fu il mio primo vero insegnante di musica. Era molto abile e pratico. Avevo già iniziato a studiare pianoforte, ma lui mi fece smettere. “ Te impari mejo a recia" (Impari meglio a orecchio), disse nel suo inconfondibile dialetto riferendosi alla mia facilità incredibile di apprendimento. Ma in questo modo mi impedì di imparare la musica e, purtroppo, fu un grave danno.

<< Lucatello cominciò a farmi tenere concerti nelle ville venete, perché voleva che mi abituassi al contatto con il pubblico. In poco tempo, nella zona tutti mi conoscevano e mi apprezzavano. Un impresario mi offrì una piccola parte di un'opera vera, con cantanti importanti, e feci così il mio debutto in teatro. Cantai a Padova, a Montagnana, a Udine, a Cividale.

<<Nel 1930 morì anche mio padre. Mia sorella e mio fratello si erano già sposati. Andai ad abitare con mia sorella. Continuai a partecipare a spettacoli provinciali. A Rovigo tutti mi volevano bene e pensavano al mio avvenire.

La sarta era sicura che sarei diventata una grande artista e si prodigava in consigli. Mi insegnò a curarmi le unghie, le mani. Aveva notato che la mia grafia era pessima, illeggibile. Diceva: "Devi imparare a scrivere il tuo nome bene perché quando sarai famosa dovrai fare molti autografi". Mi consigliò di copiare pagine di romanzi, di fare ogni giorno esercizio per scrivere il mio nome velocemente e bene. Diventai una grafomane: scrivevo "Giulietta Simionato" dappertutto.

La prima grande affermazione del talento di Giulietta Simionato si ebbe a un concorso lirico.

<<Nel 1933>>, raccontava <<lessi su un giornale che il Teatro Comunale di Firenze organizzava un concorso lirico. Era il primo del genere. Chiesi consiglio al maestro Lucatello, e lui mi disse di iscrivermi. Il premio era costituito da cinquemila lire che, per quel tempo, erano una bella somma.

«Andai a Firenze e presi alloggio in una povera pensione. Eravamo 385 concorrenti. Erano tutti accompagnati da genitori, sorelle, amici. Io ero sola come un cane, e molto triste. La giuria era composta da artisti famosi: il maestro Tullio Serafin, Umberto Giordano, Vito Frazzi, il tenore Alessandro Bonci, il tenore Amedeo Bassi, Salomea Kruseniski, soprano polacco e Rosina Storchio. Correva voce che i vincitori fossero già stati scelti fra i raccomandati, e io partecipai senza alcun entusiasmo. Vedevo però che le mie esibizioni erano molto applaudite dal pubblico e apprezzate dalla giuria. Con mia sorpresa, fui ammessa alla finale. Ai termine della prima romanza, sembrava che il teatro crollasse per gli applausi. Capii che potevo vincere, ma non ne fui certa finché non arrivò la conferma ufficiale. Quando andai a ritirare il premio, Rosina Storchio si alzò e con voce commossa mi disse: "Canta sempre così, cara, non cambiare mai".

<<Avevo 23 anni. Un avvenire radioso si apriva davanti a me. Tutti pensavano che avrei iniziato una grande carriera. Io stessa ne ero ormai convinta. E mai avrei potuto immaginare che la mia attesa, invece, sarebbe durata ancora 14 anni. Quante sofferenze e quante lacrime in quel periodo! Se avessi saputo ciò che mi attendeva, avrei certamente rinunciato.

<<Prima di tornare a Rovigo volli salutare il maestro Tullio Serafin, presidente della giuria che mi aveva premiato. Fu gentilissimo. Mi rinnovò i suoi complimenti e mi disse: "Lei è veramente brava. Farà una grande carriera. Studi soprattutto Cenerentola di Rossini perché è nata per fare quell'opera". Poi mi consigliò di andare a fare un'audizione alla Scala. Mi diede il nome di un maestro e aggiunse: "Gli dica che la mando io".

<<A casa raccontai tutto e, nei giorni successivi, organizzai il viaggio a Milano. Alla Scala, quando dissi che mi mandava il maestro Serafin, tutti si mostrarono gentili e premurosi. Mi fecero cantare, mi ascoltarono con attenzione, dissero che ero brava, ma ancora troppo giovane. "Torni fra due anni", mi consigliò il maestro amico di Serafin.

<<Nell'autunno del 1935, tornai alla Scala. "Sono trascorsi i due anni", dissi al maestro amico di Tullio Serafin. Feci una nuova audizione e venni assunta. Era il massimo traguardo cui potessi aspirare. Non mi rendevo ancora conto della grandezza e dell'importanza mondiale di quel teatro, ma sapevo che era prestigioso. Da lì il salto verso la grande carriera era facile.

<<A me, però, non interessava diventare famosa. Quella sistemazione risolveva i miei problemi: mi dava un lavoro fisso. Avevo uno stipendio di 1200 lire al mese, per sei mesi, cioè per la durata della stagione. Amministrando quei soldi con criterio, potevo mettere da parte il necessario per mantenermi anche nei mesi in cui non percepivo lo stipendio.

<<Iniziai il mio impegno alla Scala nel novembre del 1935. Mi affidarono subito una piccola parte, la madre superiora nella Suor Angelica, di Puccini. Protagonista era Oltrabella, dirigeva Gino Marinuzzi. L'impatto con l'ambiente fu traumatico. Ero timida, riservata, paurosa. Non mi fidavo della gente e non facevo facilmente amicizia. Durante le prove, mi vergognavo a cantare e soffrivo. Per l'emozione la voce stentava a uscire dalla gola. Avrei voluto scappare, come avevo fatto altre volte nei concerti a Rovigo, ma ora cantare non era più un gioco per me, era diventato il mio lavoro. Dovevo restare lì. Per fortuna, il maestro Marinuzzi fu comprensivo. Scherzava su quella mia incredibile timidezza. Diceva: "La signorina Simionato è come uno zolfanello umido: non si accende mai al primo colpo". Tutti ridevano, e io mi rinfrancavo.

«Il mio debutto sul palcoscenico scaligero avvenne il 29 gennaio 1936. La recita andò benissimo. In teatro c'era aria di festa. Tutte le cantanti avevano parenti, amici, fidanzati e, dopo la recita, andarono a festeggiare. Io ero sola. Non avevo avvertito di quel debutto neppure mia sorella. Al termine dello spettacolo mi tolsi il trucco, tornai nella mia stanzetta d'affitto, mangiai una scodella di pane e latte, una mela e andai a letto. Il giorno dopo tutti mi dicevano che ero stata molto brava. Anche Marinuzzi era contento>>.

Debuttare alla Scala, sia pure in una piccola parte, è un traguardo che non si può dimenticare mai. Giulietta Simionato aveva un contratto fisso con quel teatro, quindi prospettive di lavoro continue e possibilità di eccezionali affermazioni. Lei lo sapeva bene e certamente faceva grandi sogni.

Ma il destino le riservava un avvenire duro. Undici anni di gavetta durissima.

<<Dopo quella piccola parte in Suor Angelica, non feci più niente>>, raccontava Giulietta. << Mi scritturavano, sempre per piccole parti, ma come "doppio". Il "doppio" è quella cantante che deve tenersi pronta per sostituire la titolare della parte in caso che questa sia ammalata. E' un compito affidato alle meno brave. Io ero il terzo, quarto doppio, c'erano cioè tre, quattro cantanti pronte a sostituire la titolare prima di me. Era una condizione umiliante. Partecipavo sempre alle prove, assistevo alle recite, ma non cantavo mai. Ero, quindi, una nullità assoluta.

<<All'inizio, questa situazione offendeva il mio orgoglio e mortificava i miei sogni. Con il passar del tempo, diventò un vero trauma che corrose la mia personalità e la mia sicurezza. "Non valgo proprio niente", mi dicevo e piangevo disperata.

<<Era una situazione senza sbocco. Avevo bisogno di quel posto per lo stipendio che mi permetteva di vivere. Non sapevo fare nessun altro lavoro. Non avevo il coraggio di tentare la strada per mio conto, negli altri teatri: quindi dovevo starmene zitta e ingoiare quelle umiliazioni.

<<Quella assurda, incredibile situazione durò fino al 1947: undici anni. Undici terribili anni di galera alla Scala. Un supplizio che non auguro al peggior nemico. Per tutto quel periodo, che rappresentò gli anni più belli della mia vita, perché ero giovane e nella pienezza dei mezzi vocali, fui tenuta nel sottoscala del teatro milanese, inoperosa, inutilizzata. Ogni tanto mi affidavano piccoli ruoli, in cui dovevo dire due, tre frasi. Accettavo, ma agivo come un automa. La tristezza e la depressione mi avevano tolto ogni entusiasmo. Ero talmente avvilita che commettevo gli errori più assurdi.

<<Una sera cantai le quattro battute che avevo nel primo atto di un'opera. Poi tornai nel camerino, mi tolsi il trucco e andai a casa. L'opera veniva trasmessa in diretta alla radio. Accesi l'apparecchio, mi distesi sul letto per seguirla. Ascoltai il secondo e il terzo atto. A un certo momento del quarto atto, quando sentii un motivo intonato dall'orchestra, balzai in piedi gridando: "Oddio, adesso tocca a me". Mi ero scordata che avevo altre quattro battute da cantare nel quarto atto. Rimasi lì, impietrita, in mezzo alla camera, ascoltando alla radio che cosa sarebbe accaduto. Nessuno cantò quelle frasi.

<<Ciò che avevo fatto era inqualificabile. Per tutta la notte non riuscii a chiudere occhio. Pensavo ai rimproveri che avrei ricevuto, alle conseguenze. Potevano licenziarmi. Al mattino mi recai alla Scala, presi il mio posto fingendo che non fosse accaduto niente. Ma quando mi videro, le mie colleghe mi dissero: “Dove ti eri cacciata ieri sera, ti abbiamo cercato dappertutto”. Fui chiamata in direzione. “In questo teatro non è mai accaduto una cosa simile”, disse il maestro che era responsabile del mio settore. Scoppiai a piangere e credo che non mi licenziarono per compassione”.

<<Si è mai chiesta come mai, alla Scala, la trattavano così?>>, domandai alla Simionato. <<Lei era arrivata in quel teatro su segnalazione di Tullio Serafin, che era una autorità; aveva una voce stupenda, come ha dimostrato in seguito con la sua carriera, i dirigenti musicali della Scala erano persone preparate, non potevano non accorgersi delle sue qualità: perché, allora, per undici anni non le hanno mia affidato parti importanti?».

<<E' un mistero>>, rispose la Simionato. <<Io credo che l'unica ragione vada cercata nella politica. Allora imperava il fascismo e nel campo artistico tutto procedeva per raccomandazioni. La Scala era piena di raccomandati, non solo per i ruoli di prestigio ma anche per le parti di poca importanza. E dovevano cantare i raccomandati. Quando venne eseguito l'Amico Fritz, di Mascagni, per il ruolo di Beppe c'erano cinque doppi: io ero l'ultimo. Il maestro Guarnieri, un uomo molto distaccato dalla politica, li protestò tutti e fece cantare me. Ma fu un caso.

<<Tutti sapevano che ero brava, ma non mi davano spazio perché non ero raccomandata. Alcuni miei colleghi celebri, che mi stimavano e mi volevano bene, tentarono di farmi cantare almeno in altri teatri, in modo che non mi demoralizzassi completamente. Tancredi Pasero voleva portarmi all'Arena di Verona, dove, secondo lui, c'erano buone possibilità. Aveva trovato una parte per me, ma, all'ultimo momento, questa parte venne affidata a una cantante raccomandata da donna Rachele. Mariano Stabile, il grande Falstaff di Toscanini, riuscì a farmi scritturare dal Comunale di Bologna per il ruolo di Cherubino, il paggio della contessa Almaviva nelle Nozze di Figaro di Mozart. Ero felice. Andai, feci alcune prove, ma poi si intromise una famosa cantante che aveva anche grande potere politico per via dei suoi protettori.

Chiese ai dirigenti del teatro: “Perché non avete dato a me quella parte?”. “Perché lei è occupata con un'opera alla radio”, risposero. E lei disse: “Ma io posso fare spostare le date”. Infatti fece spostare i suoi impegni radiofonici e cantò al mio posto. Poiché avevo un contratto, mi pagarono ugualmente. I soldi mi furono utili, ma anche in quell'occasione non riuscii a cantare.

<<Pensando a quel brutto periodo mi viene addosso ancora una cupa tristezza. Vivevo in una povera camera ammobiliata. Per risparmiare, facevo tutto in casa: mi preparavo da mangiare, lavavo, stiravo, mi confezionavo i vestiti. Durante le vacanze, mi trasferivo nel Veneto, a Crespano del Grappa, dove viveva il maestro Ettore Lucatello, che era stato il mio primo insegnante, e studiavo con lui. Mi faceva coraggio. Ma, a mano a mano che passa-vano gli anni, anche lui perdeva le speranze. "Quei disgraziati ti stanno rovinando", diceva>>.
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In quegli anni difficili per la sua carriera, Giulietta Simionato era ancora molto giovane. A guardare le fotografie del tempo, era molto bella. Aveva un fisico asciutto, un viso attraente, era una ragazza piacente.. Un giorno le chiesi a bruciapelo: <<Com’era la sua vita sentimentale in quegli anni?

<<Nera>>, rispose secca. <<Uno dei consigli che mi aveva dato il maestro Lucatello quando avevo iniziato ad andare a scuola da lui, era: “Niente mariti, niente figli se vuoi far carriera. Il canto richiede un impegno assoluto”. Poiché stimavo molto quel maestro, cercai sempre di mettere in pratica scrupolosamente i suoi consigli e mi tenni alle sue istruzioni anche per quanto riguardava la mia vita sentimentale.

<<La solitudine però mi pesava molto. Ero giovane, carina, mi piaceva essere corteggiata. Avevo diversi ammiratori, facevo la civetta, ma appena la faccenda prendeva un aspetto serio, mi ritiravo come un riccio e troncavo bruscamente. Per questo mio carattere, ero guardata come una ragazza un po' strana, misteriosa.

<<Nel 1939, questo gioco non mi riuscì. Lo spasimante che aveva preso una cotta per me era un violinista dell'orchestra della Scala. Si chiamava Renato. Molto bravo, bell'uomo, estroverso, uno di quei tipi che piacciono alle donne. Aveva tre anni meno di me. Si innamorò all'improvviso. Perse addirittura la testa. Cominciò a scrivermi lettere focose, lunghe poesie, che poi musicava.

<<All'inizio ero lusingata delle sue attenzioni, ma quando mi accorsi che faceva sul serio mi spaventai. Gli dissi che non gradivo la sua corte e che perdeva tempo con me. Invece di lasciarmi, Renato intensificò le sue attenzioni. Mi attendeva fuori della Scala e voleva accompagnarmi a casa, portarmi a cena. Una sera mi disse che voleva assolutamente sposarmi. “Mai”, risposi “non mi sposerò mai”. “Allora andiamo a vivere insieme”, replicò lui. Immaginarsi se facevo una cosa del genere, con l'educazione severa che avevo ricevuto da mia madre.

<<Cercai di percorrere strade diverse per andare al teatro, di uscire a orari irregolari, nella speranza di evitare il mio corteggiatore. Ma Renato mi attendeva per ore e mi seguiva come un'ombra. Non riuscivo a levarmelo di torno.

<<Dopo un paio di mesi mi telefonò il fratello di Renato, che era un noto avvocato di Milano. Mi disse: “Lei ha veramente sconvolto mio fratello. Non mangia più, non riesce a lavorare, è sull'orlo di un brutto esaurimento nervoso. Se ne è andato da casa e minaccia di uccidersi. Comunque, ha già fatto scene del genere quando è stato innamorato altre volte. Cerchi di temporeggiare. Sono certo che gli passerà anche questa cotta”.

«L'avvocato stava dalla mia parte, ma mi chiedeva di non dare un taglio netto alla vicenda per evitare gesti inconsulti da parte di suo fratello. Accettai. Dissi a Renato che avevo bisogno di un anno per riflettere. Continuai a sopportare pazientemente quella situazione, ma era un autentico tormento. Renato si faceva sempre più insistente. Veniva a trovarmi con una rivoltella, se la puntava contro la tempia e diceva: “Se mi lasci, mi uccido”.

<<A tutti i miei angosciosi problemi si era aggiunto anche quella assurda complicazione. Vivevo nel terrore. Temevo che un giorno o l'altro quel pazzo si uccidesse sul serio, ma avevo anche una tremenda paura che sparasse contro di me.

<<Dopo un anno, eravamo al punto di partenza. Renato non mi aveva lasciato, anzi era più che mai deciso a sposarmi. Mi diede un ultimatum: “O mi sposi o la faccio finita”. Esasperata, cedetti. Ci sposammo. Fu una cerimonia squallida. Non invitai nessuno. Non avvertii neppure mia sorella. Piansi per tutta la durata del rito.

<<Andammo in viaggio di nozze in un alberghetto sul lago di Como. Non amavo quell'uomo e, per paura, avevo firmato la mia condanna. Tornai dal viaggio di nozze e nel disfare le valigie vidi la rivoltella. “Buttala via”, gridai piena di orrore “non voglio più vederla”. Mio marito si mise a ridere. La prese e mettendomela sotto il naso disse: “E' una scacciacani”.. Rimasi impietrita. Mi aveva sempre ingannato. Mi sentii ridicola. Il mio risentimento verso quell'uomo si tramutò in odio.

<<La mia vita con Renato non fu mai felice. Dopo le nozze, scoprii che aveva anche il vizio del gioco. I pochi risparmi che riuscivo a mettere da parte con il mio modesto lavoro, servivano spesso a pagare i suoi debiti di gioco. Ero caduta in una situazione che non lasciava speranze. Tutti i miei sogni di carriera, erano ormai svaniti>>.

Pressata dalle necessità economiche, dai debiti di gioco del marito, dal desiderio di qualche affermazione artistica per poter sentirsi ancora viva, dotata di talento, Giulietta Simionato riuscì a vincere la sua timidezza e a cercare qualche impegno artistico fuori del Teatro alla Scala.

Incontrò una ragazza, conosciuta al concorso di Firenze nel 1933, Maria Merlo, che aveva lasciato la professione per diventare organizzatrice di spettacoli e attraverso il suo aiuto ottenne delle scritture importanti in vari teatri, mettendo in evidenza le sue straordinarie doti. La fama della sua bravura si diffuse immediatamente e anche alla Scala cominciarono ad aprire gli occhi.

Il cambiamento definitivo per la carriera di Giulietta Simionato avvenne dopo la guerra, grazie al maestro Tullio Serafin, che Giulietta aveva conosciuto nel 1933 al concorso di Firenze.
Serafin era stato nominato direttore artistico della Scala nel 1946. Iniziò il suo nuovo incarico nell’autunno e mise subito in cartellone anche Cenerentola di Rossini.

<<Mi ricordai>>, raccontava Giulietta Simionato <<che a Firenze, quando si congratulò con me per la vittoria che avevo ottenuto, il maestro mi aveva detto: "Studi Cenerentola. Lei è nata per cantare quell'opera".

<<Chiesi subito di incontrarlo. Serafin mi ricevette con grande cordialità. "Si ricorda di me?", gli chiesi. "Come posso dimenticare una voce come la sua?", rispose. Le sue parole mi diedero coraggio e aggiunsi: "A Firenze lei mi disse di studiare Cenerentola. Ho seguito il suo consiglio. Io sono pronta".

<<Non era vero. Non sapevo una nota di quell'opera. Nelle misere condizioni economiche in cui mi ero sempre trovata in quegli anni, non potevo permettermi di pagare un maestro che mi insegnasse un'opera che forse non avrei mai cantato. Ma le difficoltà mi avevano svegliata, mi avevano fatta diventare furba. Ormai avevo 36 anni. Se non cominciavo a fare qualcosa di importante, per me era finita. Per questo dissi una bugia al maestro Serafin. E con una sfrontatezza, che prima di allora non avevo mai avuto, aggiunsi: “Ho saputo che quest'anno, qui alla Scala, si farà “Cenerentola”. Ci terrei molto ad avere la parte”.

<<Serafin mi guardò in silenzio. Dopo un po' disse: “E' tardi: abbiamo già assegnato le parti”. Mi sentii svenire. “Peccato”, mormorai con un fil di voce. Il maestro avvertì la mia delusione e disse: “Ci sono però altre opere per lei. Per esempio, “Così fan tutte”, di Mozart. La parte di Dorabella è divertente, spiritosa e anche importante. Cominciamo con quest'opera”.

<<Studiai quella parte. L'opera andò in scena il 17 aprile 1947 e ottenni un successo lusinghiero. Serafin fu molto soddisfatto. “Dobbiamo fare subito Carmen”, mi disse. “Non mi sento pronta”, replicai. Carmen è una delle opere più importanti per un mezzosoprano e anche tra le più impegnative. Serafin disse: “Lei ha fatto grandi progressi. Sento nella sua voce delle possibilità straordinarie. Faremo Carmen prima alla radio, poi alla Scala".

<<Tornai a casa preoccupatissima. Per alcune notti non riuscii a dormire. Mi svegliavo di soprassalto, in preda a incubi. Gli anni di attesa e di frustrazioni avevano distrutto il mio sistema nervoso e la mia sicurezza. Temevo di non essere all'altezza dell'incarico che Serafin mi aveva affidato.

<<Cominciai a studiare Carmen. Andavo a ripassarla da un maestro in pensione, che avevo conosciuto alla Scala. Non credeva in me e mi prendeva in giro. Ma quando si accorse che avevo veramente una bella voce, cambiò atteggiamento e divenne un mio sostenitore. L'opera, che interpretai alla radio accanto a Giacomo Lauri Volpi, ebbe un grandissimo successo.

<<Il maestro Serafin, intanto, mi aveva affidato la parte di protagonista nella Mignon di Thomas, in programma alla Scala all'inizio di ottobre di quello stesso anno. Anche questo era un incarico di prestigio. Mignon è un'opera difficile. Per quella edizione c'era una grande attesa per il tenore, Giuseppe Di Stefano, astro nascente, che l'anno prima aveva trionfato in Manon di Massenet. Tutti gli appassionati parlavano di questo giovane dalla voce d'oro. Cantare con lui in quel momento, era importante.

<<Mignon, che prima non conoscevo, mi piacque moltissimo. La parte di quella zingarella povera e infelice che alla fine scopre di essere una duchessa, sembrava confezionata su misura per la mia voce e la mia sensibilità. Alla "prima", la Scala era zeppa. Tutti erano venuti per sentire Di Stefano, che cantò benissimo. Ma oltre a trovare la conferma del giovane tenore, scoprirono me. Fui io la vera sorpresa di quella serata e ottenni un successo incredibile.

<<Il giorno dopo arrivarono telefonate, telegrammi, fiori a non finire e anche molte proposte di contratti. Con Mignon la mia carriera "scoppiò" letteralmente. Da quel giorno non ebbi più un attimo di tregua>>.

Giulietta Simionato divenne la rivelazione, la grande interprete. Tutti i teatri la volevano. Continuò a cantare alla Scala, ma anche negli altri più prestigiosi teatro del mondo. La sua vita divenne un moto perpetuo. Passava da un teatro all'altro, senza interruzione. Teneva una media di ottanta, novanta recite l’anno, media molto alta. Aveva un repertorio di 117 opere. Con la sua voce di ampia estensione, poteva affrontare anche parti di soprano.

Ma nonostante i successi, i trionfi, la popolarità, Giulietta Simionato rimase sempre una persona riservata e schiva. Non ebbe mai atteggiamenti da diva.

<<Non ho mai amato l'ambiente lirico>>, affermava. <<I colleghi parlavano sempre di voci, spettegolavano degli altri, e io mi annoiavo. Inoltre, le mie abitudini di vita non combaciavano con le loro. Sono sempre stata metodica: mi alzavo presto e andavo a letto presto. In qualsiasi parte del mondo mi trovassi, alle tredici e alle venti mi sedevo a tavola. Invece, gli artisti lirici sono abituati ad alzarsi a mezzogiorno, e pranzare alle tredici e a cenare a mezzanotte. Non ho mai partecipato alle cene dopo le recite. Terminato lo spettacolo, mi toglievo il costume e, ancora truccata, tornavo in albergo. Le recite mi lasciavano esausta e il mio stomaco non avrebbe sopportato una vera cena.

«L'unica collega, alla quale sono stata legata da un'autentica e profonda amicizia, fu Maria Callas. Ma anche questo legame risentì molto del mio carattere introverso. Maria era molto famosa, molto ricercata, e io temevo sempre di disturbarla. Se mi chiedeva qualcosa, mi facevo in quattro per ac-contentarla; ma se non si faceva viva, io non la cercavo. Solo dopo la sua morte mi sono resa conto che, forse se le fossi stata più vicina, avrebbe sofferto meno di solitudine».

<<La conobbi nel 1949, ma la nostra amicizia si consolidò nel 1950, in occasione di una lunga tournée in Messico. Restammo insieme parecchio e potemmo conoscerci a fondo.

<<Allora Maria era molto felice. Era sposata con Giovanni Battista Meneghini, un uomo che la adorava. Pensava sempre a lui, gli scriveva lettere interminabili e ogni tanto mi diceva, in dialetto veneto: "Mi son stufa, voggio tornar da Titta".

«Durante il viaggio per il Messico, ci fermammo a New York perché Maria voleva salutare i propri genitori. Sua madre era all'ospedale per un intervento a un occhio. Maria mi ospitò nell'appartamento della madre e non sapeva più cosa farmi perché mi trovassi a mio agio. Mi offriva birra e altre bibite fresche. Rifiutavo, ma alla fine accettai una Seven Up. "E' una specie di gassosa", disse Maria versandomela nel bicchiere.

<<Spumeggiava. Ne trangugiai un sorso, ma il secondo lo sputai. "Sa di petrolio", dissi. La bocca mi bruciava, lo stomaco si ribellò e cominciai a vomitare. "Strano", disse Maria annusando la bottiglia con calma imperturbabile. "Effettivamente odora di petrolio".

<<Mi lasciò sola e andò a trovare sua madre all'ospedale. Continuai a vomitare e a star male. Quando tornò, Maria mi chiese come mi sentivo. Era preoccupata, ma non disse niente. Solo il giorno dopo mi svelò la verità. Sua madre aveva messo in quella bottiglia un insetticida e io avevo rischiato di morire. "Non dire niente a nessuno", mi raccomandò "altrimenti i giornali scriveranno che volevo ucciderti".
<<Maria aveva mani bellissime ma pesanti, e aveva la cattiva abitudine di dare pacche sulle spalle in segno di affetto. Le sue mani sembravano senza ossa, erano come pezzi di gomma, e quelle pacche facevano un male tremendo. Mi lamentavo ogni volta che mi mostrava il suo affetto in quel modo, e lei rideva perché non si rendeva conto del male che mi faceva.

<<Un giorno, durante le prove di Anna Bolena alla Scala, mi si avvicinò alle spalle senza che mi accorgessi e mi diede una delle sue micidiali pacche. Provai una fitta terribile e, d'istinto, senza riflettere, mi girai e le appioppai un violento schiaffo sulla guancia. Maria rimase di stucco, immobile per un attimo. Poi si girò, e tornò in camerino. Per una mezz'ora ci fu burrasca in teatro. Quello schiaffo rischiava di rompere un'amicizia e di mandare all'aria l'opera. Ci furono incontri diplomatici. Si intromise il regista Visconti, il marito di Maria, Meneghini. Alla fine la Callas si convinse che non avevo reagito a quel suo gesto affettuoso con cattiveria, ma solo per il male, e facemmo la pace. Il mio schiaffo era stato effettivamente molto forte: per tutto il giorno sulla guancia di Maria restò l'impronta della mia mano.

<<Un ricordo indimenticabile è il mio incontro con Toscanini. Nel 1948 ricorreva il trentesimo anniversario della morte di Arrigo Boito e Toscanini volle dirigere alla Scala il terzo atto del Mefistofele e il terzo e quarto del Nerone. Io fui scelta per la parte di Rubria. Il maestro non mi aveva mai sentito cantare, e forse mi prese su segnalazione di qualche suo collaboratore. Quando alla Scala mi comunicarono l'incarico, provai una grande gioia. Cantare con Toscanini era un onore. Però ero anche preoccupata. Tutti sapevano che il maestro era esigentissimo. Se un artista non avesse risposto alle sue attese, lo avrebbe cacciato via.

<<Le mie preoccupazioni aumentarono quando seppi che qualcuno, invidioso, aveva detto a Toscanini che non ero all'altezza di cantare con lui. "E' finita", mi ripetevo. "Il maestro mi ascolterà con pregiudizio e mi caccerà".

<<La prima prova era fissata in casa di Toscanini. Il maestro aveva male a un ginocchio e faticava a camminare. L'incontro fu spiccio. Si cominciò subito la prova. Con me c'erano il soprano Herva Nelli, il basso Cesare Siepi e il tenore Frank Guarrera. Al pianoforte, il maestro Antonio Votto. Tremavo.

<<Quando arrivò il mio turno, iniziai a cantare, ma la voce mi ballava pietosamente. "Ho capito", mi interruppe Toscanini "le hanno detto che ho mangiato qualcuno". Tutti risero. "No, maestro", dissi io. "Eh, via, so bene cosa dicono di me", aggiunse Toscanini. Si avvicinò e, con calma e una dolcezza straordinaria, continuò: "Lei, in questa scena, deve avere una grande serenità. Rubria è un personaggio mistico. Sta morendo, ma non ha paura della morte. Nella voce si deve sentire la sua assoluta calma interiore".

«Le parole del maestro mi tranquillizzarono. Ripresi a cantare e la voce, ora, rispondeva in pieno. Interpretai tutta la scena della morte. Lasciandomi prendere dall'azione, mi distesi su un divano come se fossi stata in teatro. Devo essere stata molto convincente perché, ad un certo momento, Toscanini girò le spalle e andò verso la finestra. Si soffiò il naso. Era commosso. Dopo un po' tornò davanti a me e mi disse: "Brava. Così Arrigo avrebbe voluto che la parte fosse cantata". Dopo la prova, Antonio Votto mi disse: "Credo che nessun cantante sia mai riuscito a commuovere Toscanini fino alle lacrime, come hai fatto tu"».

Il successo, i trionfi, la popolarità, la ricchezza non cambiarono la vita privata di Giulietta Simionato. Una donna per essere pianamente felice, deve essere innamorata, e lei non lo era.
<<Mi trovavo ingarbugliata in una vicenda che non presentava sbocchi possibili>>, raccontava su questo argomento. <<Ero sposata con un uomo che non amavo, e quindi non potevo essere felice. Il lavoro mi permetteva di viaggiare e stare lontana da mio marito: questo era un vantaggio concreto ma una magra consolazione.

<<Ero carina, e i corteggiatori non mi mancavano. Ma la mia mentalità ligia al dovere mi impediva di innamorarmi di un altro. Avevo tentato di ottenere la separazione, ma per lasciarmi mio marito mi aveva chiesto una cifra che non avevo.
«Alla fine del '49 conobbi un collega che cominciò a farmi una corte serratissima. Era un bell'uomo, un grande parlatore ed era anche molto ambizioso. Gli avevo raccontato la mia situazione matrimoniale e lui cercò di approfittarne con tale insistenza e freddezza che finii per odiarlo.

«Mio marito si era accorto della corte che mi faceva quel tale, e ne era geloso, mi pedinava. Nel febbraio del '50 ero a Torino. Dovevo cantare alla radio nella Messa da requiem di Donizetti, e con me cantava anche che il mio spasimante. Una sera, dopo le prove, non riuscendo a dormire, salii nella sua camera per chiedergli qualcosa da leggere. Restai con lui a chiacchierare non più di dieci minuti. Ma proprio in quel breve tempo, mio marito era arrivato in albergo e aveva chiesto di parlare con me. Il portiere mi aveva citofonato in camera, ma io non c'ero. Allora mio marito, che aveva orchestrato il tutto ad arte, telefonò in questura dicendo che lo stavo tradendo. Arrivarono due poliziotti e con mio marito salirono in camera, dove io nel frattempo ero tornata e stavo leggendo tranquillamente. Mi interrogarono. Andarono a interrogare anche il mio collega. Sembrava fossimo dei malfattori. Ma portarono in Questura, dove trascorsi il resto della notte, ma poi tutto si risolse in niente, perché contro di noi non c'era alcuna prova.

<<Fu un'esperienza allucinante. La notizia finì sui giornali, con commenti piccanti. Una cosa terribile. Ma che mi diede la forza di riprendere le pratiche per liberarmi di mio marito. E questa volta fui fortunata: ottenni non solo la separazione, ma addirittura l'annullamento>>.

Solo nel 1955, quando aveva già 44 anni, Giulietta Simionato incontrò l’uomo della sua vita. Il vero amore, e con lui visse 24 anni di grande felicità.

Quell’uomo si chiamava Cesare Frugoni. Uno dei clinici più famosi. Aveva notorietà mondiale per essere stato il medico di capi di Stato, di artisti, di uomini politici celebri, fra cui Palmiro Togliatti, re Fuad d'Egitto, Toscanini, Mussolini eccetera. La Simionato aveva allora 45 anni e Frugoni ne aveva 74. Una differenza di età di 29 anni. <<Ma ne dimostrava 50>>, diceva Giulietta con entusiasmo. <<Era asciutto, eretto, con lo sguardo mobilissimo, penetrante, emanava un grande incredibile>>.

Finalmente, la grande cantante si innamorò perdutamente. Ed era felicissima. Ma anche in quell’occasione, le difficoltà da superare furono tante e grandi.

<<Come ci accorgemmo dei nostri sentimenti, il professore mi fece un'ampia descrizione della sua situazione. Mi disse che era sposato, che aveva due figli, e che non poteva chiedere il divorzio perché sua moglie era molto malata, era neurodepressa. Vivevano divisi da trent'anni. La moglie si era ritirata in una villa vicino a Brescia, e non voleva vedere nessuno. Lui, medico, non avrebbe mai chiesto il divorzio da una persona ammalata, neppure per un grande amore come quello che provava per me.

<<Certo, la situazione era ancora una volta ingarbugliata. Ma dentro di me sentivo finalmente, la forza travolgente di un grande amore, un sentimento che non avevo mai provato prima e decisi di abbracciare quella situazione.

<<Il nostro fu un amore stupendo. Frugoni era un uomo meraviglioso. Credo sia impossibile trovare in una sola persona tutte le qualità positive che aveva lui. Per dieci anni, ci amammo segretamente. Poi la moglie del professore morì e lui mi chiese di sposarlo. Non aspettavo altro. Date le circostanze e la notorietà di entrambi, decidemmo di farlo in segreto.

«Le nozze furono fissate per il 18 novembre 1965, alle nove del mattino. Scegliemmo la chiesetta di Santa Maria della Pace, che era sempre chiusa, quindi nessuno si sarebbe accorto della cerimonia. Il professore raggiunse la chiesa per conto suo, come pure i testimoni che per il professore erano il conte Cini e il professor Simone, suo assistente; per me, un avvocato e un agente di cambio.

<<Quella mattina dovevo recarmi a Milano, dove sarebbero cominciate le prove alla Scala di Forza del destino. Dissi all'autista, che mi accompagnava sempre in questi lunghi viaggi, di venire a prendermi alle otto e trenta. Caricammo i bagagli e partimmo. Arrivati nei pressi della chiesetta di Santa Maria della Pace, gli dissi: "Giorgio, si fermi qui, per favore. Devo fare una piccola commissione". Per paura che mi seguisse, appena scesa dall'automobile gli dissi ancora: "Mi raccomando, non si allontani perché in macchina c'è la mia borsa con i documenti". "Stia tranquilla, signora, non mi muoverò", rispose lui, che era fedelissimo.

<<In fretta raggiunsi la chiesetta. Alla chetichella arrivarono anche gli altri. Sembravamo dei carbonari. Alle nove e quindici, pronunciai il mio "sì". Ero emozionata e anche Frugoni lo era. Al termine della cerimonia ci salutammo e, alla chetichella, ognuno andò per la propria strada. Tornai dall'autista e gli dissi: "Giorgio, possiamo andare". Per tutto il viaggio non pronunciai altra parola, ma avevo una gran voglia di piangere.

«A Milano continuai la mia attività di cantante co-me se non fosse accaduto nulla. Ma nel gennaio del '66, la notizia del mio matrimonio con il professor Frugoni cominciò a trapelare. I giornalisti mi facevano domande precise. Non si poteva più tenere nascosto il fatto, e allora, in un intervista, confermai che mi ero sposata e annunciai che, il primo febbraio, con la recita di La Clemenza di Tito alla Piccola Scala, avrei dato l'addio al teatro.

«Avevo 56 anni ed ero ancora in piena forma vocale. Le mie dichiarazioni suscitarono grandi discussioni. Dirigenti di teatri, colleghi, amici, appassionati di lirica tentarono di dissuadermi da quella decisione, ma nessuno riuscì a farmi cambiare idea. Avevo trovato una nuova dimensione della mia vita, quella di moglie, e volevo viverla in pieno>>.

Con il marito Cesare Frugoni, Giulietta visse 13 anni. Il celebre professore si spense il 5 gennaio 1978. Avrebbe compiuto 97 anni ai primi di maggio. Giulietta si sentì morire con lui. Si ritirò in una sua villa, in campagna, e non voleva più vivere. Ma il destino le riservava ancora altre sorprese, altre attività, altri impegni, un nuovo matrimonio con l’industriale farmaceutico Florio Angeli, e ancora la vedovanza. Dovettero passare ancora 32 anni prima che anche lei chiudesse gli occhi per sempre, e furono anni intensi, attivi, pieni di soddisfazioni e anche di dolori, di tristezza, come del resto era abituata fin da quando era venuta al mondo.