Ricordando le “voci d’oro” che hanno entusiasmato i pubblici dei teatri lirici  di tutto il mondo.

GIUSEPPE TADDEI, IL BARITONO

CHE INCANTAVA PAVAROTTI

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di Renzo Allegri - Foto di Nicola Allegri

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Giuseppe Taddei, grande baritono,  avrebbe compiuto 94 anni il 26 giugno e amici da tutto il mondo si preparavano a festeggiarlo. Invece se ne andato per sempre all’inizio del mese, il 2 giugno, 24 giorni prima del suo compleanno. A maggio, anche Giulietta Simionato ha lasciato questa terra alla vigilia di una grande festa quella dei suoi cent’anni. Il 15 giugno è mancato Giacinto Prandelli e di anni ne aveva 96.  Il 5 luglio ci ha lasciati Cesare Siepi, 87 anni, basso dalle note profonde e vellutate, nato a Milano ma vissuto soprattutto in America, beniamino del pubblico del Metropolitan dove ha cantato per trent’anni.

Sono tutti  artisti del periodo d’oro della lirica italiana, in particolare degli Anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta del Novecento, quando il melodramma era amato dalle folle, dai giornali, dalla radio e dalla televisione. Artisti che hanno altamente onorato l’opera lirica nei nostri teatri e in quelli di tutto il mondo,  ambasciatori di un prezioso prestigio culturale del nostro Paese. I giornali italiani hanno dato la notizia della scomparsa di questi artisti con titoli appropriati ma  con resoconti biografici sintetici, troppo brevi per far capire chi erano veramente e quanto hanno dato alla musica. Del resto, questa è la regola. Oggi, la musica, per le masse, è purtroppo solo quella delle canzoni. Le opere, le sinfonie, sono diventate merce  del passato, riservata a un pubblico d’elite. E’ facile, quindi, trovare sui giornali pagine intere dedicate al  divo di turno delle canzonette, con accanto un trafiletto per  ricordare la carriera di un leggendario interprete della musica sinfonica e lirica.

Per fortuna, ci sono gli spazi del Web, i siti, i blog, dove non valgono queste regole. Dove è possibile celebrare  in forma ampia anche gli artisti della grande musica.

Mi dedico con passione a ricordare i miti del passato. Nella mia lunga carriera di giornalista li ho conosciuti, di molti sono stato amico ed ho conservato l’abitudine di andare a trovarli anche quando non cantano più.  In questo modo ho raccolto un materiale enorme di racconti, conversazioni, ricordi, fotografie. E mi sembra giusto dividere questo materiale con chi ama la lirica. A marzo, sulle pagine del settimanale “CHI” ho dato ampio spazio ai ricordi di Magda Olivero, che ha felicemente festeggiato un secolo di vita e in quell’occasione ho realizzato anche un bellissimo servizio fotografico nella sua casa, per ricordarla anche fisicamente, perché l’arte e la sua ricchezza spirituale hanno plasmato il fisico di questa grande donna, conservandole, anche a cent’anni, una bellezza limpida come la luce.

A maggio, ho ricordato Giulietta Simionato, che ha mancato i suoi cent’anni per sei giorni, e anche di lei ho pubblicato delle magnifiche foto, non recentissime, ma realizzate in occasione di un ampio servizio scritto per il Giappone, dove la cantante è amatissima. Ora voglio ricordare Giuseppe Taddei.

L’ultimo pomeriggio che ho passato con lui,  nella sua casa a Roma,  zona di  Monte Mario, risale al marzo del 2002. Taddei aveva  85 anni, era in splendida forma, come dimostrano le immagini scattate in quell’occasione. Ed era ancora in attività. Teneva concerti in Italia e all’estero. Un fenomeno.  Parlammo a lungo. Taddei raccontava con passione. Ricordi della sua vita, della sua carriera.  Era instancabile. Dimostrava una energia fisica incredibile e un entusiasmo da ragazzo.

<<Sono stupito io stesso>>, diceva.  <<Non ho mai nascosto la mia età: il 26 giugno prossimo compirò 86 anni. Eppure, me ne sento meno della metà. La mia voce è ancora ferma, non balla affatto e inoltre ne ho ancora tanta di voce, più di quando era giovane>>.

Per dimostrarmi che le sue non erano affermazioni al vento, si alzò dal divano del salone della sua bella casa romana, allargò il torace e attaccò il celebre monologo di Iago nel secondo atto dell’Otello “Credo in un Dio crudel”. Un attacco potente, deciso con una grinta impressionante, ma insieme un canto nobile, non gridato, musicale, velato, triste, e un colore di voce di rara bellezza. <<Alla Scala, per l’inaugurazione della stagione Leo Nucci, che ha sessant’anni, è stato un  magnifico  Jago>>, disse ancora. <<Ma se avessero chiamato me, che di anni ne ho 26 più di lui, forse non avrei fatto brutta figura neppure io>>.

Rise divertito. Un sorriso solare, franco, simpatico. Ma subito volle precisare che l’accenno a Nucci non voleva essere  assolutamente una critica.  <<Ho una grande stima e ammirazione per Nucci, che è bravissimo>>, disse. <<Ma volevo sottolineare che, pur avendo tanti anni in più di Leo, non mi sento, vocalmente, finito, tagliato fuori neppure per manifestazioni tanto importanti quali l’inaugurazione della stagione lirica di un teatro come la Scala, che è il più prestigioso del mondo>>.

Grandissimo artista ma anche un uomo straordinario.  Non si trova un solo collega di Giuseppe Taddei che abbia avuto il più piccolo risentimento verso di lui. Mai fatto critiche a nessuno, mai espresso giudizi poco simpatici verso altri artisti. Un caso quasi unico nel mondo della lirica, dove le invidie, i rancori, le rivalse in genere predominano sui buoni rapporti. Parlando con i colleghi di Giuseppe Taddei o leggendo le interviste e le biografie di coloro che hanno cantato nel periodo in cui lui era il “Re” dei baritoni, si trovano solo elogi al suo carattere, alla sua generosità, alla sua cordialità. Mirto Picchi, che fu un ottimo tenore fiorentino, morto purtroppo nel 1980, a soli 65 anni, in una sua biografia ricorda gli aiuti ricevuti da Taddei a Vienna negli anni dell’immediato dopoguerra. In quella città Picchi interpretò diverse opere, ma non si trovava bene per via del clima troppo freddo per lui e per la cucina, tanto diversa da quella della sua terra toscana, ma trovò un  generoso e disinteressato aiuto in Taddei. <<Amo ricordarlo non solo per l’ammirazione grande che ebbi  fino da allora per lui, ma anche per il fraterno, prezioso aiuto e incoraggiamento che volle darmi>>, scrisse Picchi. << Più volte mi ospitò a colazione e a cena nel suo appartamento molto più caldo, nel quale aveva fatto giungere dall’Italia tutti i suoi, madre compresa, donna amabilissima>>.

La generosità, l’amore per la gente, per gli amici, anche per le persone che vedeva per la prima volta, erano istintivi in Taddei, quasi una seconda natura. Ne fui testimone io stesso  in quell’ultimo pomeriggio trascorso insieme. Ero arrivato da una quindicina di minuti e mi aveva già chiesto una decina di volte se avevo mangiato, se avevo viaggiato bene, se ero stanco, se volevo un caffè, un grappino. E  continuava a dirmi: “Siediti. Sei certamente stanco. Aspetta che ti faccio portare qualche cosa di caldo. Siediti qui vicino a me che chiacchieriamo. Come sono contento di vederti…Ti ricordi a Vienna, nel  gennaio 1984? Io facevo “Falstaff”, abbiamo cenato insieme, in quel ristorantino vicino al teatro... C’era anche tua moglie. Eri già un po’ calvo ma avevi molti più capelli di adesso…>>. Rideva continuando a sciorinare dettagli minimi di incontri del passato dimostrando una memoria di ferro. <<Non solo la voce mi è rimasta intatta>>, affermò <<ma per fortuna anche la memoria, la vivacità intellettuale,  l’appetito, insomma sono fortunato e debbo veramente ringraziare il buon Dio. Un solo grande dolore: la perdita di mia moglie, dopo 65 anni di matrimonio…Pazienza. La vita deve fare il suo corso…>>.

La vicenda artistica di Giuseppe Taddei è veramente straordinaria. Forse unica nella storia della musica lirica. Non si è mai saputo che un cantante lirico possa affrontare ancora il palcoscenico a 85 anni. E affrontarlo in condizioni di voce che sembravano miracolose.

Voglio qui ricordare ciò che scrisse di Taddei un altro grande emiliano della lirica, Luciano Pavarotti. Richiesto un giorno di dare un suo parere su Taddei, ha voluto scrivere di suo pugno un giudizio che, pur palesando tanta ammirazione, delinea con competenza le caratteristiche vocali di questo artista e il tratto saliente della sua personalità.

<<Giuseppe Taddei, per gli amici "Peppino", è, come cantante lirico, una combinazione fra le più rare che la storia del melodramma possa offrirci>>, scrisse Pavarotti. <<Combinazione di voce grande e bella, direi quasi "grassa" nel senso positivo della parola,  e di arte sublime, arte non artefatta, ma che viene da un'intelligenza vivissima di interprete del testo vocale e musicale, e insieme da una presenza scenica che lo fa sempre essere al centro dell'attenzione e vicino alla "verità". Non gli sfugge nulla di ciò che succede sul palcoscenico,  per cui le sue reazioni e ancora di più i suoi suggerimenti rendono la scena sempre esilarante,  sia per l'opera  comica, come "Falstaff" o l'Elisir d’amore" come per l’opera drammatica e toccante come "Tosca" o "Simone Boccanegra". Il suo repertorio sembra infinito, uno dei più vasti, e la sua carriera è certamente inimitabile. Si è perfino preso il lusso di interpretare Wagner con risultati grandiosi ...

<<Come uomo, Peppino resta sempre un ragazzo…Proprio così! Che potenza quella della lirica, dove ogni dramma è un falso, ma dove, con un po' di trucco e con la mimica, si può diventare un altro.  “Forse il poter diventare ogni volta un altro aiuta a rimanere giovane”, canta  Lucio Dalla nella sua canzone “Caruso”. Sì, questo è abbastanza vero nella nostra professione. Ma Peppino e più che giovane: è un ragazzo, e rimarrá cosí fino alla fine dei suoi giorni che spero lontanissima. Allora con lui sparirà un colosso della lirica inimitabile ed il ragazzo Peppino Taddei che rimarrà per sempre e per tutti esempio da seguire per imparare>>.

Pavarotti si è espresso a modo suo, con grande affetto. Ma anche i critici più severi hanno sempre riconosciuto a Taddei questa sua inimitabile originalità artistica, questa sua personalità unica, ricca, solare, leggendaria. La sua voce, di rara bellezza timbrica, è stata più volte paragonata dai critici alla morbida e vellutata cavata di un violoncello. <<Una voce pastosa, emessa con grande perizia tecnica>>, hanno scritto. <<Taddei possiede l’innato gusto per la fantasia interpretativa, riuscendo a trovare per ogni personaggio l’esatta definizione espressiva, sia in termini puramente vocali, con accenti, colori, inflessioni; sia con il trucco e le movenze in palcoscenico da grande attore>>. <<Taddei, il fenomeno>> . <<Taddei o l’arte dell’intuizione>>.  <<Taddei “mattatore” irresistibile>>. <<Voce grave, ampia, cordiale>>, ha sentenziato Lauri Volti  dopo aver ascoltato il baritono genovese in una edizione di “Otello”.

<<Mi fa sempre molto piacere leggere quello che i critici hanno scritto di me>>, mi disse quel pomeriggio Peppino Taddei. <<Ho raccolto le critiche che mi riguardano uscite sui giornali di tutto il mondo. Le conservo bene ordinate in grossi volumi. Ogni tanto le scorro, rileggendo i titoli e rivivendo una lunga interminabile carriera dedicata al canto. Io ho poco merito. Con voci come la mia, che durano sempre,  non bisogna fare altro che ringraziare Dio. La mia voce è soltanto un grande dono di Dio>>.

<<Quali sono i tuoi prossimi impegni?>>,  gli chiesi a bruciapelo.

Lui mi fissò indagatore.<<Ho capito>>, disse dopo qualche attimo di silenzio. <<Vuoi prendermi in giro. Questa è una domanda che in genere gli intervistatori fanno ai giovani o agli artisti in piena carriera. E tu vuoi sfottermi.  Vuoi insinuare che io a 85 anni non posso più avere impegni. Ma non mi arrabbio. Ti rispondo, invece, che ti sbagli, che al contrario di quello che pensi ho ancora richieste di concerti. Da qualche anno non accetto di interpretare opere intere, ma solo per prudenza e per rispetto per i teatri. Però, concerti sì. E anche selezioni di opere in forma di concerto. Nell’ottobre scorso sono stato in Giappone e nella stessa sera ho cantato, accompagnato dall’orchestra, una selezione delle “Nozze di Figaro” e del “Gianni Schicchi”. Devo aver fatto colpo perché gli organizzatori giapponesi mi hanno rinnovato la richiesta per altre serate. Non ho avuto il coraggio di dire di no. In Giappone, dove ho cantato diverse volte, mi sono sempre trovato bene. I giapponesi sono un popolo nobile e amano veramente la musica. Così ho accettato, ma senza precisare, almeno per ora, la data. Penso che tornerò, se posso, alla fine del 2002 o all’inizio del 2003 e interpreterò, sempre in forma di concerto “Otello”>>.

<<Quando hai fatto la tua ultima opera completa, in teatro?>>  

<<Nel 1995, avevo quasi ottant’anni>>.

<<E l’ultima incisione discografica?>>

<<Nel 1997, a New York, con Pavarotti>>.

<<A quando risale il tuo debutto in teatro?>>

<<Al lontano 1936, avevo vent’anni. Debuttai qui a Roma nel “Lohengrin” di Wagner. Protagonista era Beniamino Gigli. Era una delle poche occasioni in cui Gigli interpretava Lohengrin. Il baritono era Armando Borgioli, il basso, Giacomo Vaghi e il soprano era Franca Somigli. Il direttore era Tullio Serafin. Io facevo l’araldo. Una parte difficile, scoperta, cioè senza musica di accompagnamento, ed è molto facile stonare. Ero emozionato ma ricordo che Gigli mi diede un calcetto sul fondo schiena dicendomi “Non ci pensare, Canta e basta.”

<<Fu un debutto preziosissimo per me. Poter cantare accanto a grandi artisti di quel calibro significava fare esperienza e imparare molto. Per di più quel debutto mi fece conoscere il direttore d’orchestra, Tullio Serafin, che poi è diventato una specie di “papà musicale” per me. Lui mi ha fatto fare, per sei, sette anni, le piccole parti alternate, ogni tanto, ad una grande parte. Così ho risparmiato la voce e mi ha fatto maturare.

<<Però, il vero debutto in palcoscenico lo feci a quindici anni, in una parte del “Gatto stivalato” al Carlo Felice. Era una fiaba lirica sovvenzionata da una certa contessa Pollastrelli. Doveva in teoria essere rappresentata per i ragazzi, ma i prezzi del biglietto erano così elevati che non venne nessuno ad ascoltarci. Cantammo egualmente, a teatro vuoto. Poi la contessa, come ricompensa per il nostro lavoro, ci regalò un “gatto stivalato” tutto d’oro. Un regalo bellissimo, che le costò un patrimonio e la mandò quasi in fallimento. Lo tenevo come uno dei ricordi più belli e tempo fa i ladri me lo hanno rubato>>.

<<Come mai hai scelto la carriera di cantante lirico?>>.

<<Credo di essere nato con questa passione. Infatti, anche da bambino, non ho mai pensato di fare nessun altra professione nella mia vita. Io sono nato a Genova, in via Gattamora, a pochi passi dalla casa di Paganini, nel cuore di Genova>>.

<<I tuoi genitori erano amanti dell’opera?>>.

<<Sì, ma come del resto tutte le persone di quel tempo. Allora le arie delle varie opere erano popolari come le canzoni di adesso. Mio padre, originario dell’isola d'Elba, era operaio meccanico. Mia madre, invece, aveva una bottega di scarpe di corda che forniva gli ospedali di Genova. Se le caricava addosso per portarle ai clienti. Era piccolina e si vedevano solo le scarpe camminare. Mia madre era di religione protestante, aveva una bella voce e cantava in chiesa. Io la seguivo. Fino all’età di 14 anni sono cresciuto anch’io nella religione protestante e cantavo in chiesa con mia madre. Avevo una bella voce intonata. Mio padre fu il primo a capire l’importanza della mia voce naturale, e fin da quando avevo cinque, sei anni, mi portava in giro dai suoi amici, mi faceva salire su un tavolo e mi chiedeva di cantare le canzoni di quel tempo e mi piaceva un mondo sentire gli applausi e vedere l’entusiasmo che suscitavo.  E poi, cantare era un vero divertimento  Per quanto ne so io, nella nostra famiglia ci fu solo un vero musicista, uno zio, fratello di mia madre, che era un flautista formidabile. Si ammalò e lo misero al manicomio. Mi ricordo che da piccolino andavo a trovarlo insieme a mia madre e parlava sempre di musica>>.

<<Quando hai visto la prima opera lirica in un teatro?>>.

<<A sei anni, al Politeama genovese. Mi portò mia madre. L’opera era l’Otello, con Tullio Verona e Lina Rossi Quinzio. Il baritono era Carlo Morelli.  Ne riportai un’impressione fortissima. Se chiudo gli occhi, vedo ancora le scene di quello spettacolo>>.

<<Quindi eri proprio nato per fare il cantante lirico>>.

<<Sì, credo proprio di sì. Ma per intraprendere una carriera, bisogna studiare e in famiglia nessuno ci pensava, non c’erano i mezzi, si riteneva la cosa quasi impossibile. E’ stata la mia maestra della scuola elementare, Giuseppina Lusso, a capire che una voce come la mia andava coltivata con uno studio regolare>>.

<<Com’eri da ragazzino?>>

<<Un monellaccio. Figlio unico, coccolato in famiglia, estroverso per carattere,  con una fantasia scatenata. Ricordo che da piccolino cavalcavo i leoni di marmo che ci sono davanti alla cattedrale di San Lorenzo cantando a squarciagola. Mi pareva di essere un condottiero, l’ex corsaro Simon Boccanegra, che era proprio nato da quelle parti. Ma non avrei certo potuto immaginare che molti anni dopo, proprio sul quel sagrato, avrei cantato il “Simon Boccanegra” di Verdi, organizzato da un mio fan club.

<<Sopportavo mal volentieri le imposizioni disciplinari della scuola. Per questo, a volte, invece di seguire i miei compagni in classe, me ne andavo in mare con i pescatori e facevo i tuffi dal pontile delle loro barche. Ma anche a scuola ne combinavo di tutti i colori:  appendevo  magliette dei compagni fuori dalle finestre, facevo la pipì nei calamai. Insomma, ero una piccola canaglia.  Alle lezioni di canto tenevo sempre la bocca chiusa. La maestra, Giuseppina Lusso,  se ne accorse e mi chiese: “Ma tu perché non canti mai?” “Io non canto con gli altri”, risposi. “Perché?”, chiese lei. “Non mi va, mi piace cantare da solo”.  “Allora, fammi sentire”, disse la maestra. Salii sulla cattedra, come facevo nelle case degli amici di mio padre, e cominciai a cantare una delle canzoni che conoscevo bene. La maestra rimase stupefatta, i miei compagni  seguirono il mio canto rapiti e alla fine applaudirono entusiasti”. “Tu hai un dono meraviglioso”, disse la maestra”, e cominciò a prendersi cura della mia voce. Fu lei che mi portò al Conservatorio, dove cominciai a studiare musica. Lei stessa mi insegnava privatamente e mi preparava per gli spettacoli in classe.

<<Ero diventato un bambino famoso, ma continuavo ad essere indisciplinato. Molto indisciplinato. La mia maestra chiudeva un occhio sulle mie marachelle, ma la direttrice della scuola no. Alla fine di quell’anno scolastico ne avevo combinate tante e la direttrice mi disse che mi avrebbe dato un votaccio in condotta sulla pagella. Siccome però dovevo cantare alla premiazione di fine anno, io la ricattai. Dissi che se mi avesse dato un votaccio in condotta, non avrei cantato. Sapeva che lo avrei fatto e dovette darmi la sufficienza>>.

<<Quindi, terminate le elementare hai frequentato il Conservatorio e poi, a vent’anni, hai iniziato la carriera>>.

<<Mi piaceva anche fare l’attore.  Per questo ho frequentato una scuola di recitazione, scuola che è risultata in seguito molto utile. Infatti, le mie interpretazioni sono sempre state apprezzate perché riesco a entrare  dentro il personaggio. Quando preparo un’opera, mi documento sull’epoca in cui i fatti si svolgono, studio il modo di vestire della gente in quel periodo, il modo di comportarsi, così riesco ad essere più convincente, più credibile.  Il mio è un lavoro di scavo psicologico. E anche adesso, quando insegno, la mia specialità non sta tanto nel trasmettere agli allievi i segreti di come si deve emettere la voce, tenere il diaframma e cose del genere, ma insegno a entrare nei personaggi, a cantare le frasi in modo da far capire i sentimenti, che possono essere di odio, di amore, di vendetta, di ira, di paura, di sospetto. Una stessa frase  cambia radicalmente da come viene cantata>>.

<<Dopo il debutto a Roma che cosa accadde?>>

<<Non avevo alcuna fretta di raggiungere il successo. Anzi, per la verità non avevo coscienza del mio valore artistico. Cantavo in piccole parti ed ero contento. Nel 1937 ebbi la fortuna di essere assunto come artista nel “Carro di Tespi”. Era una specie di compagnia lirica ambulante. Il nome derivava dal personaggio greco Tespi, poeta a attore, che peregrinava con la sua compagnia attraverso l'Attica, fermandosi a tenere spettacoli all’aperto. Per analogia venne chiamato così in Italia il teatro ambulante creato, nel 1929,  dall'Opera nazionale dopolavoro allo scopo di portare spettacoli teatrali anche nei piccoli centri di provincia e nei paesi. All’inizio era solo un teatro di opere in prosa, poi nacque anche il “Carro di Tespi” per la lirica. Con questa compagnia ho viaggiato per 42 province. Siamo andati anche in Sardegna. La paga era buona: 65 lire al giorno. Se si tiene presente che con sei lire si mangiava e con cinque si pernottava, era un bel prendere.

<<Un giorno, a Savona mi ero innamorato e dimenticai l’orario della recita. Arrivai con quasi un’ora di ritardo. Il presidente della compagnia voleva licenziarmi, ma il direttore dell’orchestra, il maestro Santarelli, si oppose con veemenza. Ci fu un focoso battibecco tra i due. “Se va via Taddei vado via anch’io”, diceva il maestro Santarelli. Ascoltando quell’alterco, mi resi conto che ero diventato un cantante molto quotato nella compagnia. Santarelli aveva una grande fiducia in me. Quando, poco dopo,  fu allestita “La Traviata”, il presidente della compagnia voleva affidarmi la parte del Barone, che è piccola, mentre Santarelli si impose e mi diede la parte di Germont, con la quale ottenni un grandissimo successo.

<<Oltre agli impegni nel Teatro di Tessi, cantavo anche su altre piazze. Nel 1937 feci il debutto come protagonista in “Rigoletto” al Paganini di Genova. Poi cantai in “Andrea Chenier”, in “Gianni Schicchi”, “Barbiere di Siviglia”, “Guglielmo Tell” eccetera. Feci una memorabile “Traviata” al Politeama di Genova con Mercedes Capsir-Tanzi, un soprano spagnolo molto famosa

<<Nel 1941 andai con l’Opera di Roma a fare una stagione a Berlino. Cantai nell’”Italiana in Algeri”, nella “Fanciulla del West”. Ero fidanzato e mi sposai a Berlino durante quella tournée. Rientrato in Italia, dovetti partire  per il servizio militare. Ero nei Cacciatori delle Alpi. Mi sono comportato bene anche in guerra e fui decorato con due croci di ferro. Quando l’Italia venne invasa dai tedeschi, l’8 settembre 1943, ero in Slovenia. Fui fatto prigioniero dai nazisti e iniziò un calvario>>.

<<Cioè?>>

<<Disagi, sofferenze, fame, miseria, umiliazioni. I tedeschi ci fecero fare 250 chilometri a piedi, fino a Graz, e poi, su un carro bestiame, ci spedirono in un Lager ai confini con l’Olanda. Li ci facevano camminare nudi nella neve e parecchi morirono di broncopolmonite. Non c’era niente da mangiare e in un paio di mesi persi 37 chili. Mi venne un ascesso  sotto un dente. Avevo febbre e dolori lancinanti. Un tenente italiano, che era dentista, mi disse che bisognava strappare il dente altrimenti l’infezione si sarebbe diffusa provocando chissà quali conseguenze. Ma non c’erano  attrezzi adatti. Dovette togliermi quel dente con un paio di tenaglie arrugginite e per disinfettarmi usò della grappa ottenuta clandestinamente a prezzo di enormi sacrifici. Ma poi, per fortuna, i tedeschi scoprirono che avevo una bella voce e allora la mia vita cambiò di colpo>>.

<<Come avvenne?>>

<<Fu un cappellano militare italiano la causa di quel colpo di fortuna. Sapeva che ero un cantante lirico. Una sera, poichè nel campo eravamo tutti tristi, depressi, pieni di fame, venne da me e mi disse: “Cantaci qualche cosa  di allegro per tirare su il morale”. Mi sono messo in mezzo al cortile ed ho cantato alcune romanze. Mi sentirono anche i tedeschi. Un sergente maggiore, appassionato di lirica, mi riconobbe. Si ricordò di essere venuto ad applaudirmi a Berlino quando ero in tournée con l’Opera di Roma. Venne da me e disse che io dovevo mangiar bene, non essere sottoposto a sacrifici, a lavori duri, non dovevo prendere freddo perché ero una persona preziosa. E qualche giorno dopo mi chiese di andare a cantare per le truppe tedesche. “Va bene, vengo volentieri”, risposi, “ma in cambio voglio che i miei compagni vengano nutriti a sufficienza”.  Accettò. I miei compagni cominciarono a  ricevere razioni di cibo più abbondanti e io andavo in giro a cantare per le truppe tedesche nei vari Lager della Germania.

<<Sempre per interessamento di quel sergente, che mi aveva preso sotto la sua protezione, fui anche trasferito dal Lager a una tipografia di Berlino, dove lavoravo rimanendo al caldo. Mangiavo a sufficienza, ero trattato bene o tenevo concerti. Un giorno, una segretaria mi aiutò a fuggire. Vagai per la Germania finchè arrivai a Salisburgo quando la guerra era ormai finita. Mi consegnai agli americani i quali sapevano già tutto di me. Sapevano che ero un cantante e che avevo tenuti numerosi concerti in giro per i Lager. Mi chiesero perciò di cantare per le truppe americane. Accettai e in pochi mesi tenni 80 concerti per i soldati statunitensi. Furono gli americani che  mi accompagnarono a Vienna, mi presentarono ai dirigenti dello Staatsoper dicendo: “Questo lo fate cantare subito e gli fate fare tutto quello che egli vuole”. Così feci il mio ingresso in quel prestigioso teatro>>.

<<Se non sbaglio tu hai cantato molto allo Staatsoper di Vienna>>.

<<A Vienna ho cantato per quarantasette stagioni di fila, per complessive 540 recite. Vienna è stata una seconda patria per me. A Vienna avevo una bella casa, i miei figli sono cresciuti in quella città. Lo Staatsoper è stato il  “mio” teatro. Quando cominciai a diradare le mie presenze in palcoscenico, Vienna mi ha dedicato una serata di gala, nel corso della quale mi è stata conferita la cittadinanza onoraria e consegnato una medaglia d’oro che soltanto otto personaggi, prima di me, avevano ricevuto, e uno di questi era Herbert von Karajan>>.

<<Sei stato molto amico di Karajan?>>

<<Lo conobbi nel 1948, in una località termale vicino a Salisburgo. Tenevo un concerto e lui era seduto in prima fila. Mentre interpretavo la cavatina di Figaro dal “Barbiere di Siviglia” di Rossini, vedevo che sorrideva e la cosa mi dava un po’ fastidio. Terminato il concerto chiesi al direttore d’orchestra austriaco chi fosse quella persona. “E’ il maestro Karajan”,  rispose. “Vieni che te lo presento”. Quando fummo a quattr’occhi gli chiesi perché rideva mentre cantavo la cavatina di Figaro. “Non stavo ridendo”, disse. “Sorridevo perché lei è irresistibile interpretando quella musica. Quando io potrò dirigere, lei sarà il mio primo Figaro”. Aveva detto proprio così: “Quando io potrò dirigere” perché in quel periodo non poteva farlo in quanto era sotto processo con l’accusa di collaborazionismo con i nazisti. Ma pochi mesi dopo, finito il processo e assolto da quell’accusa, riprese l’attività, mi chiamò affidandomi la parte di Figaro nelle “Nozze” mozartiane.  Uno spettacolo che ha fatto storia. Con Karajan ho poi interpretato altre opere: “Il flauto magico”, “Don Giovanni”, “Falstaff”. Io ritengo che sia stato uno dei più grandi direttori di tutti i tempi. Dal podio emanava un senso di tranquillità di distensione, di naturalezza che facilitavano enormemente il lavoro dell’interprete sul palcoscenico. Ti lasciava cantare, ti infondeva anche un senso di libertà e di felicità nel fraseggio, senza frapporti ostacoli, o peggio importi delle soluzioni assurde. E’ stata un’esperienza bellissima cantare con Karajan. Lo incontrai l’ultima volta nel gennaio 1987 dopo una recita di “Tosca” allo Staatsoper. Il maestro era sofferente, piegato dai reumatismi, ma lucidissimo di mente. Gli era piaciuta la mia interpretazione di Scarpia e venne a felicitarmi. Mi strinse forte la mano mormorando con tristezza: “Dopo di noi, c’è il vuoto…”. Certamente si riferiva ai trionfi che avevamo ottenuto  con tante recite in passato.

<<Quante opere avevi in repertorio?>>

<<150. Un repertorio vastissimo. Dal Settecento ai contemporanei, ma soprattutto l’Ottocento classico con opere di Donizetti, Bellini, Rossini, Verdi, Wagner, ma poi anche Puccini, Giordano, Cilea,  Mascagni eccetera>>

Qual è stata l’opera che hai amato di più?

<<”Simon Boccanegra”. Un personaggio nato e vissuto, come me, nel cuore di Genova. Poi “Andrea Chenier”, “Falstaff”, “Otello”, “Tosca”, “Rigoletto”, eccetera>>.

<<Qual è stata la serata più bella della tua lunga carriera?>>

<<Ne ho avute tante, non saprei scegliere. Una serata indimenticabile fu quella del mio debutto nel “Simone”, a Trieste nel 1952. Doveva cantare un baritono ungherese e fu lui a offrirmi il suo ruolo. Non volevo accettare perché non conoscevo l’opera e mancavano solo 12 giorni alla “prima”. Ma quel baritono aveva intuito che io potevo fare molto bene quel personaggio e si offrì addirittura per insegnarmi la parte.  Lavorammo sodo insieme, e in 12 giorni ero pronto. Fu un trionfo indimenticabile.

<<Un altro successo strepitoso lo ottenni al Metropolitan di New York con “Falstaff” nel 1985. Anche perché quello era il mio debutto al Metropolitan>>.

<< Nel 1985 tu avevi già  69 anni: come mai debuttavi al Met così tardi?>>.

<<Per una serie di circostanze curiose e tristi insieme. Nel 1951 cantavo alla Scala di Milano. Rudolf Bing, che era allora amministratore generale del Metropolintan venne  in quella città alla ricerca di giovani talenti da scritturare per il suo teatro. Qualcuno gli parlò di me. Io ero già molto famoso, avevo fatto cose straordinarie con Karajan, con Serafin, insomma ero un artista già in grande carriera. Bing mi fece chiamare dicendo che mi aspettava per una audizione privata nel suo albergo. Gli mandai dire che se voleva sentirmi bastava venisse ad ascoltarmi alla Scala. Lui insistette per l’audizione privata e io non ci andai. Se la prese, e giurò che, finchè sarebbe stato in vita,  non mi avrebbe fatto mettere piede  a New York. E così, per quella ripicca, dovetti attendere il 1985 per debuttare il quel teatro.

<<Ma almeno il debutto fu trionfale. Il New York Times mi dedicò due articoli a distanza di pochi giorni. Il critico del Times tra l’altro affermò: “Questo è il miglior  Falstaff che abbia mai ascoltato”.  E lo stesso hanno scritto gli altri critici. E tutti in coro si sono chiesti: “Come è possibile che un artista della statura di Taddei non abbia mai messo piede sul palcoscenico del Met?”.

<<Insomma hai avuto una carriera proprio leggendaria: sei contento?>>

<<Un artista non è mai contento. Pensa sempre che potrebbe migliorare, fare cose ancor più belle. Ma io sono ormai fuori della mischia. Non credo che posso migliorare ciò che ho fatto. Guardando indietro vedo un lavoro interminabile e anche molto bello. Posso dire di essere contento e ringrazio Dio, perché il merito è solo suo. Nessuno può “inventarsi” o “crearsi” la voce per cantare. O Lui te la regala, o non puoi farci niente. Ricordatelo!>>.

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