
            
            
            Ricordi storici e inediti in questa lunga intervista con il più 
            grande interprete verdiano del Novecento, che l’11 dicembre scorso è 
            stato festeggiato al Teatro La Fenice di Venezia.
            
            
            
            
            
            
            
            
            
            
            
            
         
            
       
            
         
            
       
            CARLO BERGONZI: UNA VITA NELLA MUSICA
         
            
       
            
         
            
       
            
                
            
            di Renzo 
            
         
            
       
            
                
            
            Allegri  - Foto di Nicola Allegri
         
            
       
            
         
            
       
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            Il tenore Carlo Bergonzi è stato festeggiato 
            sabato 11 dicembre al Teatro La Fenice di Venezia, con la consegna 
            del premio “Una vita nella musica - Artur Rubinstein”. Nato 86 anni 
            fa, a Vidalenzo di Polesine Parmense, un paesino a due chilometri da 
            Busseto, città natale di Giuseppe Verdi, Bergonzi è ritenuto il più 
            grande interprete delle opere verdiane. 
            <<Sono particolarmente felice di questo premio>>, dice il tenore. 
            <<A Venezia mi legano ricordi importanti. Nel 1957 interpretai 
            “Cavalleria Rusticana”, allestita in Piazza San Marco. In quell’occasione, 
            incontrai Angelo Roncalli, che era patriarca di Venezia e l’anno 
            successivo sarebbe diventato Papa con il nome di Giovanni XXIII. 
            Poi, interpretai il “Requiem” di Verdi a Palazzo Ducale con la 
            direzione di Herbert Von Karajan. Al Teatro La Fenice interpretai 
            due edizioni di “Aida”, e “Un ballo in maschera”. Per me, La Fenice 
            è il più bel teatro che ci sia al mondo, un vero gioiello 
            artistico>>.
         
            
       
            
            Il premio, “Una vita nella musica”, è 
            prestigioso perché vanta una storia trentennale. E’ stato fondato da 
            Bruno Tosi, musicologo veneziano appassionato di lirica, conoscitore 
            di tutti i grandi interpreti e in particolare di Maria Callas, alla 
            quale ha dedicato libri e mostre, ed è diventato un premio di fama 
            internazionale. E’ stato attribuito ai più grandi protagonisti del 
            mondo musicale del nostro tempo. Da Artur Rubinstein, il primo, nel 
            1979, che ha dato il proprio nome al Premio stesso, seguito da 
            personaggi mitici quali Andrès Segovia, Karl Bohem, Carlo Maria 
            Giulini, Yehudi Menuhim, Mistislav Rostropovic, Gianandrea Gavazzeni, 
            Leonard Bernstein, Isaac Stern, Maurizio Pollini, Claudio Abbado, 
            Salvatore Accardo, Zubin Mehta, eccetera. Non poteva mancare Carlo 
            Bergonzi, che alla musica lirica ha dedicato letteralmente tutta la 
            sua lunga esistenza, avendo iniziato a cantare romanze verdiane da 
            ragazzino e continuato poi fino a ottant’anni. E ancora oggi, 
            quando, in casa sua, si mette al piano e canta, sfoggia una voce e 
            una intonazione perfette.
         
            
       
            
            <<A nove anni, mio padre mi portò a vedere il 
            “Trovatore”, nel piccolo Teatro di Busseto>>, dice Bergonzi. <<Ne 
            rimasi sconvolto. Da allora, lavorando, continuavo a cantare “Di 
            quella pira”. Era proprio destino che diventassi un cantante 
            lirico>>. 
         
            
       
            
            Il 31 agosto scorso, il maestro Bergonzi è 
            stato premiato all’Arena di Verona con L’Oscar della lirica. Ora,a 
            Venezia, oltre al premio “Una vita nella musica”, ha ricevuto un 
            riconoscimento anche dal Presidente della Repubblica, Giorgio 
            Napolitano, una medaglia d’oro, con una dedica che lo stesso 
            Napolitano ha voluto dettare: “Al maestro Carlo Bergonzi, interprete 
            sommo del repertorio verdiano, e custode illustre della tradizione 
            belcantistica italiana”. 
         
            
       
            
            Bergonzi è veramente un personaggio unico, il 
            cui valore artistico, nel campo della lirica, non ha paragoni. 
            Secondo i critici di tutto il mondo, è stato il tenore verdiano per 
            eccellenza. Forse il più fedele e autentico interprete delle opere 
            del “cigno di Bussetto” di tutti i tempi. Certe pagine verdiane come 
            le ha interpretate lui, non le interpreterà più nessun altro. 
            L’atmosfera di commozione, di magia che riusciva a creare con la sua 
            voce incantando le platee più esigenti ed esperte, resterà 
            irripetibile. 
            L’origine di questo artista è contadina. Non ha avuto la possibilità 
            di frequentare scuole importanti. Anzi, come egli stesso racconta, 
            nel canto non ha proprio avuto maestri di nessun genere. Si è fatto 
            da solo. Ma, forse, essendo nato nella terra di Verdi, avendo 
            respirato l’aria che respirava Verdi, potrebbe essersi verificato un 
            magico e misterioso fenomeno di osmosi: il grande compositore 
            potrebbe avere trasmesso al ragazzo Bergonzi quelle intuizioni, quei 
            segreti, quegli accorgimenti tecnici e stilistici che gli hanno 
            permesso poi di indicare vie rivoluzionarie nell’interpretazione 
            delle opere del maestro. 
         
            
       
            
            Bergonzi non è solo il tenore dal timbro caldo 
            e squillante, dalle mezze voci mirabolanti, dai falsetti insinuanti 
            e torniti, dalla garbatezze danzanti e suadenti, è il maestro 
            geniale, che ha rivoluzionato il modo di interpretare l’opera 
            verdiana. Nessuno meglio di lui ha posseduto l’accento verdiano, la 
            “verità verdiana” che risuona nel canto. Ai ritmi incalzanti, agli 
            acuti trionfanti, alle melodie popolari e spontanee del compositore 
            bussetano, Bergonzi ha dato un’anima, una eleganza, una regalità che 
            restano tributo ineguagliato nella storia.
         
            
       
            
            Nato, cresciuto e vissuto sempre a Busseto, da 
            un po’ di tempo Bergonzi si trova nel suo appartamento milanese. 
            <<Ho qualche difficoltà a camminare>>, dice. <<Fino a tre anni fa 
            ero un terremoto. Pronto ad affrontare lunghi viaggi senza pensarci. 
            Dopo aver smesso di cantare, mi ero dedicato all’insegnamento. Avevo 
            la mia Accademia di Belcanto a Busseto, dove venivano allievi da 
            tutto il mondo. Ma tenevo corsi anche all’estero, in Russia, in 
            Giappone, e perfino in Cina. Un giorno sono caduto e mi sono rotto 
            tre costole, poi ho avuto un embolia polmonare, poi l’ernia al 
            disco: ho capito che dovevo smettere. Ho chiuso tutto, anche la mia 
            Accademia di Busseto. Tutto finito, quindi, ma ogni giorno ringrazio 
            Dio per tutto quello che mi ha dato e per avermi conservato la mente 
            lucida, fresca, con una memoria da elefante, che mi fa sentire, a 86 
            anni, ancora giovane come un tempo>>.
            E approfittando della sua prodigiosa memoria, abbiamo chiesto al 
            maestro Bergonzi di ricordare, in questa lunga ed esclusiva 
            intervista, i momenti più importanti della sua vita e della sua 
            carriera. 
            << Mio padre faceva il casaro e io cominciai a lavorare con lui 
            quando avevo sei anni>>, racconta il maestro. <<Anche se eravamo 
            povera gente, senza studi e senza cultura, Verdi e la sua musica 
            riempivano il nostro cuore. Nel caseificio, dove iniziavamo a 
            lavorare alle quattro del mattino, le arie verdiane erano 
            l’espressione della nostra gioia di vivere e confortavano la 
            monotonia della dura fatica>>.
         
            
       
            
            
            
            
            
      
            
            
      
E’ 
            vero che la musica verdiana ce l’hai sempre avuta nel sangue, quasi 
            ti fosse stata trasmessa geneticamente?
         
            
       
            
            <<Non saprei rispondere. Nella mia famiglia non 
            ci sono mai stati musicisti o cantanti professionisti. E’ un fatto 
            però che ho sempre amato svisceratamente Verdi, fin da bambino. 
            Quando sentivo mio padre e gli altri contadini cantare le romanze 
            dalle opere di Verdi, restavo incantato ad ascoltare. Le imparavo 
            subito e continuavo a cantarle anch’io con passione. Come ti ho già 
            detto, a nove anni mio padre mi portò a teatro e vedere “Il 
            Trovatore” e rimasi sconvolto. Giurai a me stesso che sarei 
            diventato un cantante lirico. E da allora non ho avuto altri scopi 
            nella mia vita>>.
         
            
       
            
            E’ stato difficile realizzare questo sogno?
         
            
       
            
            <<All’inizio le difficoltà sono state molte. 
            Non di tipo musicale. Sembrava però che intorno a me ci fosse una 
            specie di congiura per impedirmi la carriera musicale. I primi 
            ostacoli arrivavano dal fatto che io, dopo la quinta elementare, 
            avevo smesso di andare a scuola e avevo cominciato a fare il casaro 
            insieme a mio padre. Quando poi, a 16 anni, decisi di studiare 
            canto, dovetti riprendere i libri in mano e mi resi conto che avevo 
            dimenticato tutto. Fu molto duro ricominciare da capo>>.
         
            
       
            
            Chi ti convinse a fare quella scelta?
         
            
       
            
            <<Cantavo facendo il formaggio, e tutti 
            dicevano che avevo una bella voce. “Perchè non studi canto?” 
            azzardava qualcuno. All’inizio la proposta mi sembrava assurda. Ma a 
            forza di sentirmela ripetere cominciai a prenderla in 
            considerazione. Ci fantasticavo sopra. “Forse potrei farcela”, mi 
            dicevo. Un giorno andai a trovare un ex baritono di Busseto per 
            chiedere un giudizio tecnico sulla mia voce. “Sei ancora troppo 
            giovane”, disse. “Ma la voce c’è. Potresti diventare veramente un 
            cantante”. Quelle parole scatenarono la mia immaginazione e il mio 
            entusiasmo. Cominciai a fare progetti. E cominciai anche a chiedere 
            a mio padre di poter riprendere gli studi>>.
         
            
       
            
            E tuo padre?
         
            
       
            
            <<A lui le difficoltà parevano insormontabili. 
            Non avevamo soldi. Il mio lavoro in cascina era indispensabile. 
            Comunque, non mi ostacolò. “Prova”, disse. Continuai ad andare a 
            lavorare regolarmente, ma ripresi a studiare. Tutto il tempo libero 
            lo passavo sui libri per superare l’esame di ammissione al 
            Conservatorio. E ce la feci. Fui ammesso al Conservatorio “Arrigo 
            Boito” di Parma. Al mattino mi alzavo prima delle quattro e andavo 
            in cascina a fare il formaggio, poi, prendevo il treno e andavo al 
            Conservatorio. Studiai canto, pianoforte e frequentai le scuole 
            medie per avere un po’ di cultura. Furono anni preziosi per la mia 
            formazione anche se gli insegnanti non avevano capito niente della 
            mia voce>>.
         
            
       
            
            In che senso?
         
            
       
            
            <<Dicevano che ero un baritono e mi fecero 
            studiare per quel registro. Grazie all’intuizione dei miei 
            insegnanti, per dieci anni studiai e cantai convinto di essere un 
            baritono. Ma ancor prima di finire la scuola, quando avevo poco più 
            di 18 anni, sulla mia strada si presentarono altre difficoltà che 
            insidiarono non solo la mia voce ma anche la mia vita stessa>>.
         
            
       
            
            Che tipo di difficoltà?
         
            
       
            
            <<La guerra. Nel 1943 fui chiamato al servizio 
            militare. Mi mandarono a Mantova, nella contraerea. E quando arrivò 
            l’armistizio, l’8 settembre sempre di quell’anno, i miei compagni 
            scapparono e tornarono quasi tutti a casa. Io invece ero a letto con 
            quaranta di febbre, fui preso dai tedeschi, portato in barella nel 
            campo sportivo e da lì spedito in Germania, destinato ai campi di 
            concentramento. Il viaggio verso la Germania, durato tre giorni, in 
            un treno che serviva per il trasporto del bestiame, lo feci con la 
            febbre che mi divorava, senza acqua e senza cibo. Fu un miracolo se 
            sopravvissi. Ma qualcuno, dal cielo, certamente vegliava su di me>>
         
            
       
            
            
            
            
            
      
            
            
      
Quanto 
            tempo sei rimasto prigioniero dei tedeschi in Germania?
         
            
       
            
            <<Ventisei mesi. Sono finito sul Baltico, ai 
            confini con la Polonia. Alloggiavamo in un campo di baracche di 
            legno e lavoravamo alla costruzione di una linea ferroviaria. 
            D’inverno faceva molto freddo. Anche trenta gradi sotto zero. Si 
            mangiava da cani, patate e brodo d’erba. Durante quei mesi mi sono 
            ammalato molte volte, ma non potevo restare a letto. Andavo a 
            lavorare febbricitante. A volte la testa mi girava e non vedevo 
            neppure la strada, tanto ero frastornato. Sono tornato a casa che 
            pesavo 35 chili. Mia madre, quando mi vide, mi guardava sospettosa. 
            Non corse ad abbracciarmi e continuava a ripetere: “No, questo non è 
            mio figlio”>>.
         
            
       
            
            Giuseppe di Stefano e Mario Del Monaco mi 
            hanno raccontato che, durante la guerra, loro, per il fatto che 
            avevano una bella voce e sapevano cantare romanze d’opera, erano 
            stati trattati bene, avevano evitato sacrifici e fame. Tu non hai 
            avuto questa fortuna?
         
            
       
            
            <<No. In campo di concentramento non avevo 
            quasi neppure fiato per reggermi in piedi, immagina se ne avevo per 
            cantare. Alla fine della guerra, invece, quando arrivarono i russi a 
            liberarci dal Lager, la voce probabilmente mi salvò la vita. Mi 
            ammalati di tifo e non c’erano medicine per curarlo. Ero divorato 
            dalla febbre e credevo proprio di morire. Un giorno i prigionieri 
            organizzarono una festa per i soldati russi e io, nonostante la 
            febbre, volli cantare alcune romanze. In prima fila c’era un 
            capitano sovietico, amante di lirica, che si entusiasmò della mia 
            voce e mi prese subito sotto la sua protezione. Il giorno dopo mi 
            invitò a mangiare alla mensa ufficiali. Saputo che ero ammalato, mi 
            fece visitare da un medico di sua fiducia e mi fece curare con delle 
            medicine vere. Credo che quel capitano mi abbia veramente salvato l 
            vita. E purtroppo non ho mai potuto ringraziarlo.
            <<Mentre ero ancora ammalato, arrivò la tradotta che doveva 
            riportarci in Italia. I miei compagni si prepararono per il viaggio, 
            ma io non potevo partire in quanto ero ammalato e ricoverato in 
            isolamento. Ma i miei compagni non vollero lasciarmi là. Vennero a 
            prendermi di notte e mi nascosero sul treno. Così partii senza poter 
            salutare quel capitano che mi aveva fatto curare. Se lo avessi 
            fatto, mi avrebbe certamente impedito di viaggiare in quelle 
            condizioni e sarei dovuto rimanere>>.
         
            
       
            
            Al ritorno hai naturalmente ripreso a 
            studiare canto.
         
            
       
            
            <<Immediatamente e con più grinta di prima. 
            Dopo tutto quello che avevo sofferto, volevo spaccare il mondo. 
            Conclusi i miei studi al Conservatorio di Parma e poi mi trasferii a 
            Milano per tentare la fortuna. Milano era anche allora la capitale 
            di tutte le iniziative, comprese quelle musicali.
            <<Trovai alloggio in periferia. Nel ‘47, qualcuno mi disse che c’era 
            la possibilità di debuttare nel “Barbiere di Siviglia” di Rossini. 
            Non era una grande occasione. Si trattava di cantare in un teatrino 
            parrocchiale, a Varedo, piccolo centro dell’hinterland milanese. 
            Comunque era sempre un debutto e mi pagavano anche. Accettai.
            <<Facemmo poche prove. Il direttore era un certo Lomonaco. 
            L’orchestra era costituita da un contrabbasso, due violini, un 
            flauto, il pianoforte e la grancassa. La quinte del palcoscenico 
            erano di carta. Quando uscii con la chitarra per cantare “Largo al 
            factotum”, il manico della chitarra si impigliò in una quinta io, 
            preoccupato e confuso per il debutto, non me ne accorsi e tirai giù 
            tutto. La gente rideva, fischiava, lo spettacolo venne sospeso e, 
            dopo aver ricostruito lo scenario, si riprese tutto da capo. Per 
            fortuna non accaddero altri incidenti e alla fine ebbi anche 
            successo>>.
         
            
       
            
            Così debuttasti come baritono.
         
            
       
            
            <<Non solo debuttai, ma per tre anni continuai 
            a cantare da baritono. In genere sostenevo parti secondarie, di 
            secondo piano, ma cantavo molto>>.
         
            
       
            
            Tu hai insegnato per molti anni: come ti 
            spieghi il fatto che nessuno si fosse accorto che, dentro quella tua 
            voce di baritono, si nascondeva una meravigliosa voce di tenore?
         
            
       
            
            <<Eravamo in tanti cantanti giovani, tanti 
            baritoni, tanti tenori, nessuno stava lì a sottilizzare troppo. 
            L’importante era trovare una scrittura. Quando diventai un tenore 
            famoso, tutti i direttori d’orchestra con i quali cantavo, da 
            Serafin a Guarnieri, da Gavazzeni a Votto, Capuana, Ghione, tutti 
            dicevano: “Lo sentivo io che aveva la voce di tenore”. Ma in realtà, 
            quando facevo il baritono, nessuno mi disse mai niente>>.
         
            
       
            
            
            
            
            
            
            
      
            
            
      
Pensi 
            che aver cantato per tre anni da baritono abbia nuociuto alla tua 
            voce di tenore?
         
            
       
            
            <<Al contrario, ha fatto molto bene. Ho 
            rassodato le note gravi, preparando un solido trampolino di lancio 
            per i futuri acuti. E’ come se, dovendo costruire un palazzo, avessi 
            posto delle fondamenta massicce in cemento armato. Quando passai al 
            registro di tenore avevo una struttura basilare di straordinaria 
            potenza>>.
         
            
       
            
            Chi ti ha convinto a compere quel passaggio?
         
            
       
            
            <<Nessuno. Ho fatto tutto da solo. E in gran 
            segreto anche. Mi accorsi che la voce faticava nei ruoli baritonali. 
            Sentivo che non ero a mio agio in quel registro. Invece avevo una 
            grande facilità nell’affrontare gli acuti. “Vuoi vedere che sono un 
            tenore”, mi dicevo. E ruminavo dentro di me questo problema. Due 
            erano le possibili soluzioni e tutte e due pericolose. O facevo 
            finta di niente e continuavo a cantare da baritono con la certezza 
            che sarei rimasto sempre un mediocre, un cantante di seconda 
            categoria; oppure tentavo di passare al registro tenorile con 
            l’incognita però di fallire e quindi di essere costretto a chiudere 
            la carriera lirica e tornare a fare il formaggio. Decisi di tentare.
            <<Eravamo nell’estate del 1950. Portai a termine gli impegni già 
            presi e poi cominciai a lavorare per “registrare” la mia voce. Non 
            avevo confidato i miei problemi a nessuno, neppure a mia moglie 
            Adele. Approfittando che aspettava un bambino, la consigliai di 
            andare a vivere da sua madre, così a Milano potevo dedicarmi alla 
            mia “trasformazione”. Lavoravo da solo, senza maestri, con un metodo 
            che mi ero inventato io. Avevo come supporto solo il diapason, cioè 
            quel piccolo strumento acustico che produce una sola nota, il “la”, 
            e serve per accordare gli strumenti. Me ne servivo per “accordare” 
            le mie corde vocali. In tre mesi, guadagnando un quarto di tono al 
            giorno, diventai tenore. Allora preparai due opere, “Aida” e “Andrea 
            Chenier” e andai a farmi sentire da un impresario che mi propose 
            delle recite di “Andrea Chenier” a Bari. “Mi sta bene”, risposi. Il 
            12 gennaio 1951, debuttati come tenore al Petruzzelli di Bari 
            ottenendo un buon successo. Quello stesso giorno nacque mio figlio 
            Maurizio. Cominciò così la mia carriera come tenore>>.
         
            
       
            
            Hai superato quel problema da solo: quindi 
            come tenore sei un autodidatta.
         
            
       
            
            <<Proprio così. Non ho avuto maestri e neppure 
            insegnanti. Ho fatto tutto da solo. Ho studiato la mia voce, ho 
            inventato il metodo per alleggerirla, per rafforzare gli acuti. Di 
            fronte ad ogni difficoltà riflettevo e cercavo di trovare una 
            soluzione tecnica che mi andasse bene.
            <<A questo lavoro però, sia pure inconsciamente, mi ero preparato da 
            tempo. Sembrava che dentro di me sentissi che avrei dovuto 
            incontrare dei problemi del genere. Infatti, durante i tre anni di 
            attività come baritono ebbi la fortuna di cantare accanto ai più 
            grandi tenori del tempo, Gigli, Schipa, Pertile, Tagliavini, Masini, 
            e continuavo a chiedere loro consigli e informazioni. Osservavo come 
            vivevano, cosa mangiavano, quali abitudini di vita tenevano. Prima 
            della recita, mi fermavo di fronte ai loro camerini per sentire 
            quali vocalizzi facevano per scaldare la voce. Nei momenti di pausa, 
            in albergo, ero sempre accanto a loro, li interrogavo. Insomma ero 
            molto curioso di tutto. Ebbi modo così di ottenere consigli 
            preziosi. Gigli mi parlava del diaframma, dell’importanza di saper 
            usare il diaframma. Schipa mi decantava l’opportunità di rispettare 
            il repertorio adatto alla propria voce. Ognuno mi dava un consiglio 
            e io mettevo dentro la mia memoria. Al momento giusto tutte quelle 
            informazioni diventarono una miniera d’oro per me. Posso dire di 
            essere stato un autodidatta nel preparare la mia carriera di tenore, 
            confortato però e aiutato dai consigli di quei miei grandi e 
            illustri colleghi>>.
         
            
       
            
            
            
            
            
            
      
            
            
      
Hai 
            dovuto fare una lunga gavetta prima di raggiungere la definitiva 
            affermazione?
         
            
       
            
            <<Un colpo di fortuna mi ha portato subito alla 
            ribalta. A Bari, dove cantai “Andrea Chenier”, c’era il direttore 
            generale della Rai, che fu molto colpito dalla mia voce. Venne a 
            trovarmi e mi fece un discorso di questo genere: “Quest’anno, 1951, 
            ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Verdi. Alla radio faremo 
            una grande stagione lirica eseguendo tutte le opere del maestro di 
            Busseto. Abbiamo bisogno di alcuni tenori giovani che siano pronti 
            per sostituire i grandi interpreti nel caso vengano colpiti da 
            qualche indisposizione. Io ti scritturo per sei mesi, a 50 mila lire 
            al mese. In più ti faccio cantare in due opere: “Giovanna d’Arco” e 
            “I Due Foscari”, con un cachet di 50 mila lire a opera”. Mentre lui 
            parlava, mentalmente feci dei rapidi conti: 50 mila lire al mese per 
            sei mesi facevano 300 mila lire; più altre cento mila per le due 
            opere si arrivava a un totale di 400 mila lire. Una cifra per me 
            iperbolica, inimmaginabile. Ero pieno di debiti. Vedevo risolti d’un 
            tratto tutti i miei problemi economici. “Benissimo, accetto 
            volentieri”, risposi con entusiasmo. 
            <<E quello fu il più bel contratto della mia vita. Anche perchè poi, 
            in pratica, quasi tutti i tenori titolari delle varie opere si 
            ammalarono e io li sostituii ottenendo successo e soprattutto 
            facendomi conoscere nel mondo della lirica. Infatti, allora non 
            c’era la televisione. Gli appassionati di lirica, gli addetti ai 
            lavori, i direttori d’orchestra ascoltavano le opere che venivano 
            trasmesse alla radio e così, in quei sei mesi mi feci conoscere da 
            tutti, non solo in Italia ma anche all’estero, e la mia carriera 
            partì come un razzo>>.
         
            
       
            
            Verdi, quindi, ti portò fortuna e diventasti 
            fin da allora il tenore verdiano per eccellenza.
         
            
       
            
            <<Per la verità io cantavo di tutto. Avevo una 
            grande facilità a imparare le opere in fretta. Per questo il mio 
            repertorio divenne, in poco tempo, vasto: 74 opere. Avevo però una 
            predisposizione per le opere di Verdi. Infatti, le ho cantate tutte, 
            tranne due: “Otello” e “Falstaff”, per le quali non mi sentivo 
            portato>>.
         
            
       
            
            Quali opere verdiane hai cantato di più?
         
            
       
            
            <<“Aida”, “Trovatore”, “Ballo in maschera” e 
            “Forza del destino”. Ma ho affrontato molto, e con grande 
            soddisfazione, anche “Luisa Miller”.
         
            
       
            
            I critici riconoscono che, nella storia del 
            melodramma, il tuo modo di interpretare le opere verdiane ha segnato 
            una svolta. Tu hai indicato percorsi nuovi, sensibilità diverse, 
            attenzioni speciali. Chi ti ha guidato in questo ricerca?
         
            
       
            
            <<Nessuno. Come ho detto, io sono un 
            autodidatta. Quando dovevo studiare una nuova opera di Verdi, 
            prendevo lo spartito e lo esaminavo attentamente, frase per frase. 
            Mi sono accorto che Verdi ha indicato tutto quello che l’interprete 
            deve fare. Frasi brevi, ma precise: “mezzavoce”, “due p”, “tre p”, 
            “col canto”, “rinforzato”, “smorzando”, eccetera. Io riflettevo 
            molto su quelle indicazioni e poi cercavo di eseguire la frase come 
            era indicato. Tutto qui>>.
         
            
       
            
            Quali sono i teatri dove hai cantato di più?
         
            
       
            
            <<Metropolitan, Scala, Covent Garden, 
            Staatsoper di Vienna, Arena di Verona, ma in pratica in tutti i 
            teatri importanti del mondo>>.
         
            
       
            
            
            
            
            
      
            
            
      
Ricordo 
            che è stato memorabile il tuo concerto di addio alla Scala nel 1993. 
            Hai iniziato con una canzone popolare: “Non ti scordar di me”.
         
            
       
            
            <<Quel teatro ce l’ho nel cuore. Anche se ho 
            cantato molto di più al Metropolitan, la Scala è il teatro di casa 
            mia. Iniziando quel concerto ho voluto subito dire al pubblico che 
            non volevo essere dimenticato. E il pubblico si è commosso, come del 
            resto lo ero anch’io.
            <<Alla Scala avevo debuttato il 25 marzo 1953, quaranta anni prima. 
            Non era stato un debutto fantastico. Anzi. Interpretavo un’opera 
            nuova, il “Mas’Aniello”, di Jacopo Napoli, e il pubblico non la 
            gradì. Continuava a rumoreggiare e a fischiare. Non era facile 
            cantare in quella situazione perciò non ho un buon ricordo di quel 
            debutto. Poi però sono arrivate le opere del mio repertorio “Aida”, 
            “Trovatore”, “Forza del destino”, “Un ballo in maschera”, che mi 
            hanno dato grandissime soddisfazioni.
            <<Fin dall’inizio io ero cosciente di non essere un Adone. Bastava 
            che mi guardassi allo specchio per capire. Non avevo il fisico di 
            Corelli per intenderci. Quindi, se volevo incantare il pubblico 
            dovevo farlo solo con la voce, con la magia del canto. E questa è 
            stata la mia arma. Anche alla Scala spesso è accaduto che, dopo 
            qualche aria, il pubblico balzava in piedi, in delirio. Sono momenti 
            che non si possono dimenticare. Per questo, in quel concerto 
            d’addio, ho voluto iniziare con la canzone “Non ti scordar di me”. 
            Che poi ho ripetuto anche alla fine. La stessa canzone l’ho cantata 
            anche nel concerto d’addio al Metropolitan e il giorno dopo il 
            “Time” intitolava l’articolo di cronaca di quel concerto: “No, non 
            ti dimenticheremo mai”>>.
         
            
       
            
            Quanti concerti d’addio hai fatto prima di 
            chiudere definitivamente la tua carriera?
         
            
       
            
            <<Non lo so. Diversi. Ho fatto il giro dei vari 
            teatri dove avevo cantato tante volte. In alcuni teatri sono poi 
            tornato a fare un secondo concerto d’addio, e anche un terzo. A 
            Zurigo ho fatto quattro concerti d’addio. All’ultimo, ho concesso 
            sette bis. Alla fine è venuto fuori il sovrintendente, mi si è 
            inginocchiato di fronte, sul palcoscenico, con un mazzo di fiori in 
            mano e ha detto: “Questi sono per il suo cinquantesimo anniversario 
            di carriera, ma anche per supplicarla di tornare l’anno prossimo”.
            
            <<Per cinque anni sono passato da un teatro all’altro tenendo 
            concerti di addio. Ogni volta giuravo a me stesso che era l’ultimo, 
            ma poi, dopo qualche mese, ecco un nuovo appuntamento.
            I direttori dei teatri mi chiamavano, io mi sentivo bene, la voce 
            rispondeva, la voglia di cantare era grande, e allora andavo. Certo, 
            non potevo ipotecare l’avvenire. Non firmavo contratti. Dicevo: “Se 
            mi sentirò bene, verrò”. E sono andato avanti.
            <<Un estraneo non può capire che cosa significhi per un artista 
            smettere di cantare. Ci si sente improvvisamente finiti, morti. E’ 
            come se ti tagliassero le mani, le gambe, la lingua. Per fortuna, io 
            avevo la scuola che mi permetteva di continuare a interessarmi di 
            lirica, di voci, di teatro, altrimenti guai. Ma ad un certo momento 
            ho dovuto lasciare anche la scuola. La vita ha un suo giro e bisogna 
            rassegnarsi>>.
         
            
       
            
            Qual è il segreto di tanta longevità della 
            tua voce?
         
            
       
            
            <<La tecnica. Come ti ho detto, nel periodo in 
            cui cantavo da baritono continuavo a chiedere ai grandi del tempo 
            come allenavano la loro voce. La loro esperienza è stata una regola 
            di vita per me>>.
            Quando insegnavi nella tua Accademia, avevi certamente dei “segreti” 
            da trasmettere ai tuoi allievi.
            << Nell’arte del canto, non esistono “segreti”, ma esistono invece 
            delle regole semplici e fondamentali. Primo: imparare a respirare e 
            a usare il diaframma. Questo è basilare. E lo si apprende 
            soprattutto osservando e ascoltando chi è veramente esperto 
            nell’arte di questo esercizio. Secondo: rispettare il proprio ruolo 
            vocale. Un campione di atletica leggera specialista nei cento metri 
            non si metterà mai a gareggiare anche sul miglio: sarebbe la sua 
            fine. Così un cantante lirico. Una volta c’erano le categorie e 
            venivano rispettate con scrupolo. Solo per il registro tenorile 
            avevamo: il tenore di grazia; il tenore leggero; il tenore lirico 
            leggero; il tenore lirico; Il tenore lirico spinto; il tenore 
            drammatico. E’ estremamente importante non forzare la voce e quindi 
            non uscire mai dal proprio ruolo vocale. Purtroppo, oggi, questa 
            regola viene ignorata. Anche perchè molti direttori artistici e 
            direttori d’orchestra non se ne intendono di voci. La conseguenza è 
            drastica. Ogni tanto sentiamo parlare di un giovane con una bella 
            voce. Dopo cinque sei anni non lo si sente più nominare. Dov’è 
            finito? Lo hanno fatto cantare opere non adatte ai suoi mezzi e si è 
            rovinato.
            <<Una terza regola importante è quella del regime di vita. Il 
            cantante deve condurre un’esistenza serena, regolare, morigerata, 
            rispettosa dei cicli biologici, insomma piena di sacrifici. 
            <<Un giorno ero a pranzo con la figlia di Gigli. In un tavolo 
            accanto c’era suo padre con la moglie. Alla fine del pranzo vedevo 
            Gigli che scriveva. “Tuo padre prende appunti”, disse a Rina. E lei: 
            “No, ha scritto sul foglietto un ordine per il cameriere: il giorno 
            della recita non parla mai, neppure una parola”. 
            <<Ero a Buenos Aires. Verso le dieci e trenta uscii dall’albergo per 
            fare una passeggiata e incontrai la grande Ebe Stignani con il 
            marito. “Signora, anche lei va a passeggiare?”. “No, vado al 
            ristorante”, rispose. “A quest’ora?”. E lei mi raccontò che il 
            giorno della recita pranzava sempre nove ore prima di andare in 
            palcoscenico e faceva un pranzo molto leggero. Glielo avevano 
            insegnato i vecchi cantanti, trent’anni prima. 
            <<Era un periodo in cui io accusavo piccoli disturbi alla voce: un 
            po’ di catarro, pesantezza, opacità. Andavo a pranzo alle due e 
            mangiavo forte, perchè pensavo che poi, alla sera, alla recita, 
            avrei avuto bisogno di tante energie. Volli provare il consiglio di 
            Ebe Stignani. Cominciai ad andare a pranzo alle undici e mangiare 
            leggero. La voce tornò fresca, aerea, squillante. Scoprii che si 
            canta meglio a digiuno. Da allora il giorno della recita ho sempre 
            pranzato alle undici del mattino.
            <<Un giorno ero a Salisburgo per interpretare il “Requiem” di Verdi 
            al celebre Festival. Dirigeva Herbert Von Karajan. Poichè avevamo 
            avuto poche prove, il maestro ci chiese di fare una ripassatina 
            anche il giorno della recita, alle undici del mattino. “Maestro”, 
            gli dissi “io non posso venire”. E, con grande sincerità, gli 
            raccontai che avevo preso l’abitudine di mangiare, il giorno della 
            recita, una bistecca proprio a quell’ora. Se avessi cambiato orario 
            potevo averne un danno. “Per carità”, disse Karajan “vai a mangiare 
            la bistecca, ti dispenso dalla prova”. Alla sera feci una recita 
            stupenda. E mentre uscivamo a ringraziare il pubblico che non finiva 
            di applaudire, Karajan, battendomi una mano sulla spalla, mi disse: 
            “Continua sempre a mangiare la tua bistecca alle undici”>>.
         
            
       
            
            
            
            
            
      
            
            
      
Sei 
            stato molto amico di Karajan ed hai cantato cose eccelse diretto da 
            lui.
         
            
       
            
            <<Il maestro Karajan aveva molta stima di me e 
            per otto anni abbiamo lavorato bene insieme poi i nostri rapporti si 
            sono bruscamente guastati. Eravamo a Berlino, ultima recita di 
            “Trovatore”. Venne in camerino un assistente di Karajan e mi disse 
            che il maestro mi voleva alla Scala nei “Pagliacci”. Non avevo mai 
            interpretato quell’opera e non me la sentivo di debuttarla alla 
            Scala, perciò rifiutai. “L’ho ha detto il maestro”, ripetè, 
            meravigliato, l’assistente. “Un momento”, risposi “adesso parlerò 
            anch’io con Karajan”. Poco dopo il grande direttore era nel mio 
            camerino. “Carlo”, disse “perchè non vuoi fare i Pagliacci?”. 
            “Maestro, non vorrei debuttare in quest’opera alla Scala”, obiettai. 
            “Non ti devi preoccupare”, disse lui. “Ti guido io”. “Ma sono io che 
            canto e non voglio rovinarmi”. Si arrabbiò. “Se tu non accetti di 
            fare i Pagliacci”, disse con tono offeso “non canterai mai più con 
            il maestro Karajan” e uscì sbattendo la porta. In quel momento 
            tornai ad essere il “casaro” di Busseto, il contadino che non 
            accetta soprusi di nessun genere. Balzai alla porta, la aprii, presi 
            Karajan per il bavero del frac e lo tirai di forza nel camerino. 
            Chiusi la porta e fissando il maestro negli occhi gli dissi: “Lei è 
            un grande direttore e mi dispiace non cantare più con lei. Ma io per 
            lei non mi rovino. E non mi faccio neppure sbattere la porta in 
            faccia”. Mi girai dall’altra parte. Lui uscì e non lo vidi più. 
            Avevo un altro contratto con il Festival di Salisburgo, che fu 
            naturalmente cancellato>>.
         
            
       
            
            Hai, quindi, litigato con Karajan. Eppure ho 
            sempre sentito dire che eri un’eccezione nel tuo ambiente proprio 
            perchè non hai mai avuto scontri con nessuno dei tuoi colleghi>>.
         
            
       
            
            <<E’ vero, sono sempre andato d’accordo con 
            tutti. Anche con tutti i direttori d’orchestra. Ma non significa che 
            mi lasciassi mettere i piedi sulla testa. Si dice che i tenori tra 
            di loro si sbranino. Io sono stato amico di tutti i tenori del mio 
            tempo e uno dei più bei regali ricevuti nel corso della carriera me 
            lo ha fatto proprio un tenore, Mario Del Monaco.
            <<Cantavo a Parigi “Manon Lescaut” di Puccini. Dopo “Guardate, pazzo 
            son” nel terzo atto, ho sentito partire dal pubblico un “Bravo” che 
            sembrava l’esultate dell’”Otello”. Vado in camerino per 
            l’intervallo. Bussano, apro e arriva Mario Del Monaco. “Lei mi ha 
            dato un’emozione grandissima. Mi ha fatto capire come deve cantare 
            Des Grieux. A novembre sarò al Metropolitan di New York con due 
            opere, “Aida” e “Trovatore”. Mi piacerebbe farla conoscere in quel 
            teatro. Per questo, se lei accetta, le cedo volentieri due recite”. 
            “Oh, grazie, grazie, è troppo gentile”, risposi. Ero ormai abituato 
            a sentire tante parole senza che fossero poi seguite da fatti e 
            dimenticai subito quello che mi aveva detto Del Monaco.
            <<A settembre cantavo a Livorno. Arriva nel camerino il signor Bauer, 
            che era il rappresentante in Europa di Mister Rudolf Bing, 
            sovrintendente del Metropolitan. Mi fece i complimenti e poi disse: 
            “Ho una proposta. Mario del Monaco a novembre le cede due recite al 
            Metropolitan: una di “Aida” e una di “Trovatore”. Lei dovrebbe 
            trovarsi a New York ai primi di novembre per assistere a un paio di 
            spettacoli e vedere come sono stati allestiti. Ci pensi e mi dia una 
            risposta”. Ricordai l’incontro a Parigi con Del Monaco e rimasi 
            stupefatto. Dissi a mia moglie: “Io ci vado. Per lo meno faccio un 
            viaggetto in America”. 
            <<Arrivai a New York, seguii due recite e il 13 novembre mi 
            presentai in camerino per prepararmi al mio debutto in quel teatro. 
            In camerino trovai Mario del Monaco che era venuto a darmi qualche 
            consiglio. Volle truccarmi personalmente e aiutarmi a indossare il 
            costume di Radames, che era ancora quello usato da Caruso. Feci una 
            recita magnifica. Dopo il primo intervallo arrivò Mister Bing con un 
            contratto per tre anni. Sarei certamente arrivato lo stesso al 
            Metropolitan, ma, sul piano umano, mi ha fatto molto piacere essere 
            presentato in quel modo da Mario Del Monaco>>.
         
            
       
            
            
            
      
            
            
      
Sei 
            il cantante dei record: 50 anni di carriera, 37 stagioni al 
            Metropolitan, 19 all’Arena di Verona, 12 alla Scala di Milano, hai 
            cantato in tutti i più grandi teatri del mondo e interpretato il 
            “Requiem” di Verdi a 73 anni e lo hai inciso a 74. E, nella vita 
            privata, quali sono le conquiste di cui vai fiero?
         
            
       
            
            <<La mia famiglia. Sono sempre stato molto 
            legato alla famiglia. Nonostante i successi e i trionfi in 
            palcoscenico, le gioie più belle lo ho avute dalla famiglia. Prima 
            di tutto da mia moglie, Adele, che è sempre stata accanto a me, mi 
            ha seguito dappertutto, aiutandomi a sopportare i grandi sacrifici 
            che questo mestiere impone. Poi i figli, che sono cresciuti bene, 
            uno è medico e l’altro dirige il nostro l’albergo e ristorante “I 
            due Foscari”. E adesso anche i nipotini, due, fantastici: Marta e 
            Carlo. Grande è stata la mia carriera artistica, ma più grande la 
            mia vita privata>>.
         
            
       
            
            Hai sempre detto di esserti fatto da solo, 
            di non aver avuto maestri nella tua formazione artistica. Nel 
            concerto d’addio alla Scala nel ‘93 però hai fatto un pubblico 
            ringraziamento tua moglie, affermando che senza di lei non saresti 
            diventato Bergonzi.
         
            
       
            
            <<Ecco, devo ammettere che l’unica maestra che 
            ho avuto nella carriera artistica è stata proprio mia moglie Adele. 
            Ha un orecchio formidabile. Non le sfugge niente. Ed è di una 
            severità inaudita. Non mi ha mai perdonato niente. Facevo delle 
            recite magnifiche, magari con una sola nota presa male o un po’ 
            sporca, e lei arrivava nel camerino: “Un disastro, hai cantato male, 
            quella nota non dovevi farla in quel modo”. Mi sentivo morire, la 
            cacciavo via, ma dentro di me le davo ragione e mi sforzavo per 
            rimediare. Davanti a me non mi ha mai lodato. Ma, quando non c’ero, 
            mi difendeva con i denti e diceva a tutti che ero il migliore. Io, 
            da parte mia, non mi sono mai rassegnato ai suoi tremendi 
            rimproveri, ma so che, senza di quelli, non sarei arrivato dove sono 
            arrivato. Siamo veramente una coppia formidabile, nell’arte e nella 
            vita>>.
         
            
       
            
            
            
            Acquista i dischi di Carlo Bergonzi online
         
            
       
            
            
         
            
       
            
            
            