Ieri il neoarchitetto ha aperto il suo tour al vecchio Gazometro di Roma, oggetto della sua tesi di laurea
Il nuovo viaggio del dott. Baglioni
Cinque musicisti per un progetto diverso. Domenica sarà a Este, in settembre a Udine e Vicenza

 

Claudio Baglioni ha appeso alla parete il diploma di laurea in architettura appena conseguito ed ha festeggiato ieri notte il nuovo titolo di "dottore" aprendo con un concerto al vecchio Gazometro di Roma il suo nuovo tour, un altro, il quarto o quinto diverso nel giro di un paio d'anni considerando la fine del giro dei teatri a voce e pianoforte, la breve pausa estiva con mille figuranti sul ponte gettato negli stadi, qualche appuntamento estemporaneo e la casa a tre palchi mobili con cui ha fatto quello che è il suo tour nei palasport più lungo in carriera.

Ora si riparte, con un nuovo progetto, chiamato "Crescendo", e una nuova band: «In realtà - dice il cantautore romano - avevo pensato a un periodo di riposo, me l'ero anche programmato bene, ma poi ho cominciato un po' per gioco a uno spettacolo da fare lì dove avevo incentrato la tesi di laurea, e da lì è venuta l'idea di farne un altro e poi di provare a girare per ville, castelli, teatri antichi, e siccome una cosa tira l'altra e poi c'era la concomitanza del ritorno di Gavin Harrison e di John Giblin e la voglia di suonare di nuovo insieme, insomma, eccoci qui».

Il tour toccherà domenica il Castello di Este e finirà in settembre a Udine (il 2) e Vicenza (il 3). Con Baglioni sono Paolo Gianolio (chitarre), Gavin Harrison (batteria), John Giblin (basso), Roberto Pagani (tastiere), Pio Spiriti (violino e altro).

Cosa ti sei inventato stavolta?

«Nulla di particolarmente strano. C'è solo un doppio percorso fatto di spettacoli consueti in luoghi che, anche se non sono stati costruiti per l'intrattenimento, lo diventano, cercando posti belli come ville e castelli o spazi dismessi, ex fabbriche, porti, stazioni ferroviarie, magari l'Arsenale di venezia dove già suonai anni fa, sull'acqua, ben prima dei Pink Floyd. Andiamo avanti "cercando", cercando un'Italia ancora bella che può essere riportata in vita».

Quali sono i luoghi più particolari?

«Le fabbriche sono i posti più semplici. Più difficile invece entrare nelle stazioni, perchè servono un sacco di permessi. Alcuni concerti potrebbero essere solo delle citazioni che riprenderemo a futura memoria, toccate e fughe senza pubblico, se non è possibile farlo accedere».

Il portale "libero.it" annuncerà presto una tua presenza dal vivo su internet. Cosa significa?

«Stiamo vedendo di fare dei flash sulla rete, anche collegandoci in tempo reale per alcuni minuti rendendo la gente testimone dei nostri eventi».

L'idea è quindi di fare concerti ma anche di andare in luoghi particolari anche solo per filmare. Ma per farne cosa?

«Non so ancora. Qualcosa uscirà sicuramente, o un dvd o qualcosa per la tv».

Gli ultimi concerti erano pieni di campionamenti e tecnologia. Qui che musica sarà?

«Un'altra cosa, molto acustica, un po' elettrica, molta commistione e poca tecnologia. Cerco di recuperare brani complessi anche di vecchi album o brani messi in disparte come "Male di me", "Un mondo a forma di te", pezzi da "Oltre" o di album predecenti cone "La pioggia cadrà" o "Gagarin" che arriva dal mio repertorio del mesozoico».

A fare da scenario vedo che c'è una specie di Atlante di fil di ferro che sorregge un disco luminoso. Cos'è? Il musicista che cerca di sostenere i suoi cd in tempo di crisi?

«Potrebbe essere anche così sì. È una delle opere di Catellani&Smith che aveva già creato elementi per il tour teatrale. Rappresenta un uomo che cerca la luce e la riporta in giro. Ce n'è uno alto 4 metri e forse altri 5 più piccoli che faranno da "testimoni" dei nostri concerti».

L'Associazione Spanò che organizza il concerto di Este ti ha fatto avere planimetria dell'area all'interno del castello e la proposta di vedere se ti viene in mente qualcosa per migliorare l'area adibita a spettacoli. La cosa ha avuto un seguito?

«Ancora no. Aspetto di vedere il posto con un sopralluogo reale quando andrò lì domenica per suonarci. Come architetto cerco lavoro e sono curioso - ride - ma bisogna anche stare attenti a non cadere troppo nella tentazione di fare di ogni area dismessa un museo e un luogo da intrattenimento. Le aree devono vivere una vita vera e far sì che oltre che parlare di noi, parlino a noi. Al Gazometro di Roma per esempio si sono vissute tante di quelle storie che sarebbe giusto che diventasse un luogo d'incontro, una "piazza del villaggio" che sostuisca la piazza telematica dove siamo condannati a trovarci oggi, parlandoci coi telefonini o via internet».

C'è una polemica fra architetti sul fatto di costruire monumenti piuttosto che strutture integrate col territorio...

«Capita, e a volte ti trovi di fronte a edifici che sembrano caduti lì dallo spazio. Però l'Italia ne soffre e sconta il suo passato, l'idea che da un certo periodo in poi l'architettura non avesse grande importanza, perchè l'ambiente è fatto dalle persone. Ma una strada stretta o trafficata, la mancanza di un parco, possono cambiare la vita».

Basta passare il confine per vedere come tutto cambia, belle casette ordinate e curate, coordinate fra loro a nord, blocchi di cemento scrostato buttati a casaccio appena entri in Italia...

«In Austria, ma anche in Francia vedi paesi carini. L'Italia è invece un paese che non ha architettura a differenza di altri. Dalla fine della guerra in poi è stato un disastro, si è costruito tanto e in fretta, distruggendo l'ambiente, il territorio, le campagne, per non parlare degli abusi».

Applicando l'architettura alla musica, i Pink Floyd costruivano spesso i loro brani e i dischi seguendo progetti dinamici che precedevano la composizione. E tu?

«Non è molto dissimile da ciò che faccio io. C'è chi dice che la musica è un'architettura senza edificio e ci sono molte somiglianze. Perfino parole in comune: si dice "ponte" il passaggio tra due strofe, c'è l'introduzione o ouverture che è come l'atrio di una casa e le simmetrie che si cercano tra armonia, altezza delle note e voci. L'orchestra sinfonica è architettura ed è disposta secondo concetti architettonici e spaziali. Le somiglianze sono tante ed è anche l'amo per riprendere gli studi. Il preside dell'Università di valle Giulia mi chiamò a parlare sulle analogie tra musica e architettura. E io portai anche i bozzetti dei palchi, le esperienze fatte negli stadi, il palco fatto come un ponte, come una casa. E lui mi convinse poi a iscrivermi e finire gli studi».

Quali sono le fondamenta della casa musica?

«Penso la grande resistenza della memoria. C'è un concetto di ricerca di musica, che per un italiano non può prescindere da melodramma, da Puccini, poi c'è quello che si sente in giro per il mondo. La musica pop non può avere più un'unica origine. Il pavimento diventa l'insieme delle tante esperienze fatte in giro. Sopra ci metti mobili e suppellettili dati da smania e curiosità. Non si inventa più niente. Tutto è già stato scritto ma si può mescolarlo e scarnificarlo, aggiungendo l'emozione. C'è la musica e la suggestione. E il musicista in fondo, è sempre più un viaggiatore. Più che la smania di stare sul palco e suonare, il bello è la strada, mettersi in viaggio».

Torni al palco frontale?

«Si, semplice, senza orpelli. In questo tipo di spettacolo la soluzione centrale era tecnicamente improponibile. Sarà un concerto da due ore e mezza, due e quaranta. Usiamo strumenti molto duttili, fra cui due fisarmoniche, violoncello, violino, clarino, con cui si possono fare brani in molti modi diversi. Metà concerto sarà fatto di canzoni fatte di rado o addirittura mai, ma possiamo provare brani anche da un giorno all'altro, quindi è probabile che cominceremo il tour in un modo e lo finiremo in un altro».

Hai messo in cantiere anche ipotesi di concerti all'alba o al tramonto. Che vuol dire?

«Che qualche volta mi piacerebbe cogliere in alcuni luoghi la suggestione del suonare uscendo dall'ora canonica delle 21.30. In alcune zone archelogiche, come in Sicilia, a Segesta, mi piacerebbe fare un concertino all'alba o al tramonto, anche se non so con che pubblico davanti, magari solo venti amici. È una tentazione».

Scritto nulla di nuovo intanto?

«No. Ci ho provato in qualche notte insonne, ma ancora non è uscito nulla».

Giò Alajmo