28 Luglio 2005

«La musica è stata il mio riscatto» Personaggi. Il cantante romano, recentemente esibitosi a Vicenza in forma semi-privata, si racconta Baglioni rilegge una carriera di testi sul vivere «L’artista si deve esporre e deve essere utile» 

di Maria Pia Morelli Vicenza.

Da tre generazioni è una bandiera per gli amanti della bella musica leggera italiana, quella che esalta, emoziona, fa innamorare. Claudio Baglioni, cantautore romano, sembra essere l’emblema vivente dell’elisir dell’eterna giovinezza. Lo smalto è sempre quello dei bei tempi, le doti canore restano indiscutibili, la qualità poetica dei testi riesce ancora a far venire i brividi tanto alle madri, quanto alle figlie. E ai mariti gelosi, non resta che stare ad ascoltare. Un artista completo, che accompagnato dal fedele Massimiliano Savaiano, gira il mondo, ossessionato dall’idea di realizzare il concerto perfetto, cosa che peraltro, spesso gli riesce. Un modo, in ogni caso, per dare sempre il meglio di sé di fronte a qualsiasi platea, compresa quella atipica, come è successo di recente, degli industriali di Vicenza. -

Quando lei ha iniziato la carriera, per il mondo giovanile la musica aveva una valenza rivoluzionaria. Adesso invece che significato ha?

«La musica, come altre manifestazioni collettive ha perso la forza rivoluzionaria nelle nuove generazioni che si affacciano alla vita, anche se a livello personale ognuno può continuare a ricavare da un brano motivi per riflettere e per stare bene. Alla fine degli anni Sessanta, si affermava sia in Europa che in America la voglia di cambiare il mondo e la musica interpretava questo processo. Per me ha rappresentato un’occasione di riscatto, un modo per uscire da Centocelle, un paesone di quindicimila abitanti della periferia romana, lo stimolo per realizzarmi e farmi conoscere». -

“E tu”, “Avrai”, “E tu come stai?”, “Strada facendo”, “Mille giorni di te e di me”, “La vita è adesso”: i suoi titoli tradiscono una particolare attenzione per le persone che ci stanno accanto. Un messaggio sempre valido?

«Io ho scritto canzoni sia sull’avventura sia sulla disavventura del vivere. Penso i miei testi come se fossero sempre rivolti a qualcuno, una serenata fatta da un balcone per chi mi sta ascoltando. Lo vivo come un momento magico che si traduce in un’energia dinamica, fonte continua d’emozione che cerco di condividere con il pubblico». -

Come è cambiato e qual è il mondo a cui si rivolge con i suoi brani?

«Oggi viviamo in un’epoca vagamente infelice, di contraddizioni e confusione, dove i sogni che animavano la mia generazione sono sbiaditi. Quegli ideali puri e cristallini per una società migliore non hanno ora la stessa forza, la stessa luce. La ricerca, talvolta anche disperata di conquistare il benessere, si tramuta in una corsa folle al denaro e al potere. È un palliativo, che, però ti conforta dandoti l’effimera sensazione di essere qualcuno». -

Lei dice di appartenere a quella razza padrona che è maledettamente ignorante e sprecona, cosa pensa di poter fare per tutelare i diritti dei più deboli?

«Nella mia condizione di privilegiato a volte mi illudo di avere la possibilità, partecipando a manifestazioni del tipo “accorrete gente” e a concerti “Live Aid”, di dare qualche apporto e speranza a realtà più bisognose della nostra. In altri momenti invece sono pervaso dalla sensazione avvilente che il singolo cittadino possa molto poco nel riuscire a migliorare il mondo. Tuttavia a cinquantaquattro anni, credo che l’artista, convinto di poter essere utile anche agli altri si debba esporre, nonostante le critiche sferzanti di cinici editorialisti». - Dopo otto anni a Vicenza è stato occasionalmente di nuovo insieme con Fabio Fazio con cui aveva condotto in Tv “Anima Mia”.

In generale che rapporto ha con l’ambiente dello spettacolo?

«Ho un buon rapporto con artisti come Venditti, De Gregori, Renato Zero anche perché sono romani, ma io non mi posso definire per carattere un presenzialista, sono un po’ un cane sciolto, è stata quindi la televisione che mi ha avvicinato ai miei colleghi. Da tre anni, ogni settembre, organizzo a Lampedusa uno spettacolo che mi ha messo in contatto con persone che fanno il mio stesso mestiere. È una rassegna un po’ fuori degli schemi che quest’anno allargheremo al cinema, dove sul palco, allestito sulla spiaggia si sono esibiti ospiti come Enrico Ruggeri, Irene Grandi, Pino Insegno, Bennato e molti altri». -

Perché proprio Lampedusa?

«Lì mi sento bene, è un po’ come se fosse casa mia. Inoltre l’isola geograficamente rappresenta la meta d’approdo di migliaia di immigrati clandestini: è quella pesante linea d’ombra che delimita il mondo dei ricchi da quello dei poveri, metaforicamente è un salvagente per i naufraghi. Lampedusa è stata per anni un crocevia d’incontro di diverse civiltà, quindi il messaggio di sensibilizzazione che si vuole dare è quello di conoscersi, di imparare a convivere con le razze e le realtà che sono altro da sé. Si tratta di una scommessa al tempo stesso affascinante e conflittuale che l’uomo deve fare per la propria sopravvivenza, soprattutto oggi in una realtà così allarmata e allarmante, smarrita nella sua insicurezza». -

A quale collega è legato in maniera più significativa?

«Sicuramente a Peter Gabriel, anche a molti personaggi italiani, ma soprattutto a lui. L’ho frequentato in un momento particolare della mia vita, quando, artisticamente parlando, stavo cambiando pelle. Mi ha insegnato che l’artista veterano deve avere più coraggio dei giovani, aprire sempre nuove strade, continuare ad essere pioniere, sperimentare percorsi diversi. È quello che cerco di fare anch’io, la dimensione del viaggio è fondamentale, ti apre la mente, ti aiuta a vivere meglio anche con le persone che ti stanno accanto». -

Suo figlio Giovanni è sempre vissuto con un padre celebre. Che rapporto ha instaurato con lui?

«Anch’io sono figlio unico, come Giovanni che ora ha 23 anni. Il fatto di crescere da solo, mi ha abituato a sviluppare il senso di osservazione e di ascolto del mondo. Mi sarebbe piaciuto avere un fratello; con Giovanni però il rapporto è cresciuto nel tempo. La musica ci ha avvicinati, aiutandoci tantissimo a conoscerci e ad apprezzarci. Anche lui suona e lo fa piuttosto bene, ha una grande passione, decisamente superiore a quella che alla sua età avevo io, sebbene abbia scritto “Signora Lia” a soli sedici anni”». -

Quali colpe hanno i padri e quali i valori guida a cui ispirarsi nel crescere i figli?

«I padri di oggi sono meno rappresentativi come figure di riferimento, cercano di mediare, di avere un rapporto poco contrastato, di instaurare una sorta di pace ovattata, forse un po’ troppo di comodo. Il tempo a disposizione da trascorrere insieme è insufficiente, quindi il rischio è quello di non essere in grado di cogliere i reali bisogni dei figli. Spesso viene a mancare il confronto e lo scambio di idee, necessari per crescere». -

Nel suo libro “Senza Musica”, parla della carestia di un cuore che non sa più palpitare. È il suo?

«No, perché il sentimento d’amore è un’incredibile fonte di soddisfazione, è una forza dirompente e scatenante che ti brucia dentro e a cui è impossibile sottrarsi. Nel suo nome si compiono le azioni più azzardate, si fa tutto e il contrario di tutto, è un’emozione d’euforia che talvolta può raggelarti. Io sono un timido, che ha fatto molta fatica ad avere un ruolo pubblico, in certe situazioni mi sono scoperto persino un po’ misantropo, nel tempo sono cresciuto e in questo è stata fondamentale l’esperienza sentimentale e affettiva». -Lei è un artista pieno di progetti che ha saputo affrontare sempre nuove imprese.

Quanti sogni sono caduti …“Strada facendo”?

«Nel corso del mio viaggio si sono infranti molti sogni, ma non ho mai perso la capacità di commuovermi e di stupirmi di fronte alla vita e alle cose belle e buone che comunque sa offrire. Sono un uomo fortunato, consapevole che a volte più che di un mondo nuovo c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo. Cosa che tuttora mi sforzo di fare».