31 Marzo 2004

Dagli anni Settanta a oggi, il segreto di una musica che parla al cuore

IL CANTASTORIE DEI NOSTRI AMORI

 

LIVORNO. Cantava «mi manca da morire questo piccolo grande amore» e fremevano jukebox e mangianastri, mamme e ragazzine, tende canadesi e diari segreti. Baci, labbra salate, la vacanza che tutti gli adolescenti e i post adolescenti sognavano, quella con sole, amore e teneri approcci. Ma cantava e canta anche altre storie, di figli e di vecchi, di paure e speranze, emozioni di tutti, «trasversali, come si usa dire oggi». Eccolo qui il segreto di Claudio Baglioni, classe 1951, mito da sempre, ossia dagli esordi di fine anni Sessanta fino ai giorni nostri.  «E non è facile sopravvivere a una carriera lunga come la mia». Difficile, ma non impossibile «se ci si rinnova continuamente e non ci si adagia sugli allori. Impegno, sacrificio, ecco io ho fatto così. E sono riuscito a non fossilizzarmi, perché non c’è niente di più patetico di qualcuno che non vuole crescere». Lui invece è cresciuto, ha cambiato look, la voce si è fatta più calda e la parola più saggia.  Era un ragazzino con inclinazioni quasi rock quando muoveva i primi passi nella cantine di fine anni Sessanta, era un ragazzo con la chitarra baciato dal successo negli anni Settanta, ora è padre di un ventiduenne che da lui ha ereditato la passione per la musica. Ma quell’aria un po’ sognante con cui ha attraversato quattro decenni raccontando la vita e gli amori di tutti con dolcezza e semplicità non l’ha persa. E di amore ama ancora parlare.

 

Canti l’amore da sempre e quindi sei un attento osservatore dei sentimenti: come è cambiato in questi anni il modo di amare?  

«Ci sono cose che sono uguali da secoli: il bisogno di esserci, il bisogno d’amore, soprattutto di riceverlo ma anche di darlo, e questo credo che non sia mai cambiato. Però oggi c’è anche un grande senso di smarrimento inteso come un bisogno di affermazione della propria identità. Perché l’identità individuali sono messe a rischio da una società che tende a raggrupparci per numeri, per gruppi, per partiti, per sondaggi. Siamo pubblico, consumatori, audience, siamo gente. E il sentimento viene macinato, mistificato, adulterato. Si tende ad omologarlo».  

 

“Stranamore”, “C’è Posta per te”, i tanti salotti televisivi del sentimento. Nemici dell’amore, delle emozioni vere?  

«Rendere pubblico il sentimento, farne spettacolo, significa svuotarlo, violentarlo. Perché ogni sentimento è diverso dall’altro e perché comunque se troppo illuminato il sentimento perde ogni dimensione e ogni leggerezza. Così oggi non si sa più cosa è davvero l’amore e questo genera paura ma anche cinismo. E la televisione ha una bella responsabilità».  

 

La Tv di oggi scende sempre più in basso, travolta dalla caccia all’audience. Eppure qualche anno fa tu con Fazio hai fatto un programma cult come “Anima mia”, capolavoro di ironia e leggerezza. Un’esperienza del genere oggi potrebbe ripetersi?  

«Quella è stata una bella avventura, e oltretutto facemmo anche ottimi ascolti, assolutamente insperati. Certo, mi piacerebbe fare tv, chiunque faccia un mestiere di comunicazione sa che è uno spazio ambito perché è il teatro più grande che si possa immaginare. Ricevo molte proposte, ma non riesco mai a dire di sì. Perché la televisione negli ultimi anni si è andata quasi ad autosoffocare guardando solo i numeri nudi e crudi, senza nemmeno analizzare troppo questo o quel dato di ascolto. Una guerra spezzettata minuto per minuto e questa caccia all’audience fa perdere senso alle cose, tutto è terribilmente competitivo e meno gioioso, decisamente claustrofobico. In questo contesto non so se potrebbe nascere un esperimento come “Anima mia”. Comunque devo dire che ci sono delle trasmissioni godibili, ma quasi sempre sono poi in seconda o in terza serata».  

 

Non ti piace l’esibizione dei sentimenti e anche della tua vita privata è sempre trapelato poco. Un maniaco della privacy?  

«No, soprattutto pudore. Forse c’è una parte di me che non era adatta a fare un mestiere “pubblico”, e nonostante ormai sia vaccinato all’esposizione continua ho ancora i miei momenti di timidezza, a volte non sono così spavaldo, così disinvolto come si può pensare di un uomo di spettacolo. E poi non è tanto questione di celare la mia vita privata quanto di tutelare quella delle persone che mi sono vicine e che non vogliono essere messe in vetrina come me».  

 

Hai protetto tuo figlio dai paparazzi per 15 anni...  

«Sì, fino a quando, in maniera naturale, è stato lui a scegliere di uscire allo scoperto, durante un mio concerto. Aveva appunto 15 anni e studiava chitarra da cinque. Mi è sembrato bello poterlo presentare non come il figlio ma come un piccolo musicista che aveva piacere di esibirsi insieme a me. Eravamo tutti e due felici».  

 

Quasi da quarant’anni sotto i riflettori. Mai avuto voglia di fuggire?  

«Verso metà degli anni Ottanta mi era venuta voglia di continuare a fare questo mestiere nell’ombra, un po’ come ha fatto Mina. Non fare più concerti, non apparire più. Ero stanco, dover stare in vetrina ogni ora della vita mi pesava. E in effetti un po’ mi sono defilato, due o tre anni fuori dalla mischia. Per fortuna poi mi è tornato il bisogno del rapporto con le persone tant’è che oggi la cosa che faccio più volentieri sono proprio degli spettacoli dal vivo. Lì non puoi barare: perché ormai fare un disco è un’operazione fredda, tecnica, i dischi li fanno persino le macchine. Invece trovarsi in mezzo al pubblico, e sudare, cantare e saltare da una parte all’altra, quella è una prova, è il vero modo di comunicare».

 

Puoi fare un identikit del tuo pubblico?  

«Dalle figlie, alle nonne e alla nipotine. E anche moltissimi maschi, un 40%. Un pubblico trasversale dal punto di vista socio-economico e per l’età si può fare un un tentativo di media, tra i 25 e i 30 anni. Quetso vuol dire che vedo signore e signori 70 enni e anche bambini, magari trascinati a forza...».  

 

Tentato da Sanremo?

«Il Festival non l’ho visto, ma eravamo così bombardati che tra Striscia e speciali vari mi sono fatto un’idea. L’hanno chiamato il festival del rinnovamento ma ho l’impressione che una manifestazione come Sanremo non si possa rinnovare, deve assomigliare sempre a se stessa. E non è un caso che la serata più seguita sia stata quella dedicata al revival. Se ci andrei? Ho un repertorio di 200 canzoni e lavoro da quasi 40 anni, come potrei riuscire a sintetizzare il mio lavoro con una canzone? E poi a 15 anni ho partecipato al mio primo festival, si chiamava Festival di San Felice da Cantalice. Non posso tradire San Felice per San Remo».