Quando un cane randagio diventa maestro

LA FILOSOFIA SECONDO RICKY

 

Prima Parte

Randagio per forza

Fisso i miei occhi in quelli del mio Ricky e vi scorgo la luce che ormai ho imparato a conoscere bene.

 

E’ un brillare di gioia, perché finalmente il vecchio randagio ha una famiglia. Ma so anche che quello sguardo nasconde una velata malinconia: la cicatrice che tutti i cani che hanno vissuto senza un padrone si portano dentro.

 

Quelli dei cani randagi sono occhi che registrano tutto: le solitudini, i digiuni forzati, le botte, le privazioni, le lunghe notti a nascondersi dai temporali e dal boato dei tuoni, il freddo, la sete, i combattimenti con altri cani per un avanzo di spazzatura. E poi, dopo il loro incontro con l’uomo, quasi sempre nei loro occhi è il canile, il cemento sotto le zampe, le pulci e le zecche, il pastone sempre uguale nella ciotola smaltata.

 

Tutto questo vedo negli occhi del mio Ricky, un mondo di sofferenza che però adesso appare lontano. Lui sembra capire e si preoccupa di non intristirmi coi suoi fantasmi. Allora sorride, alla maniera canina, aprendo la bocca e scoprendo solo i denti inferiori.

 

La sua espressione è luminosa. Si avvicina, mi porge il fianco da grattare. E’ un’abitudine che ha imparato nel recinto del canile, quando si appoggiava alle maglie della rete offrendosi alle dita rapide dei guardiani o di qualche visitatore. Le mie mani si muovono da sole. Lo accarezzano dolcemente sui fianchi e sotto il collo. <<Questa famiglia, vecchio mio, è per sempre!>> gli faccio presente. E poi leggere pacche di amicizia sulle spalle, che sono le effusioni preferite dai cani maschi.

 

Lui scodinzola, si illumina di nuovo.

 

Ricky ha quattordici anni. Lo sguardo un po’ annebbiato dall’età, il pelo del muso candido. E’ molto malato di cuore e, come un vecchietto uscito dall’ospedale, deve prendere le medicine, tre pastiglie tutti i giorni, due bianche e una rosa. Ogni tanto respira male, è scosso dalla tosse. Ha anche una brutta cataratta, l’udito un po’ debole e l’alito pesante perché molti dei suoi denti sono irrimediabilmente guasti. Alcuni li ha anche persi. Ha un po’ di artrite e quando si sveglia impiega del tempo a tornare diritto. Ma da un quasi due anni le sue vecchie ossa hanno imparato finalmente cosa sono le comodità di divani e poltrone, e il calore delle coperte di lana. Piaceri che erano per lui sconosciuti, dal momento che ha passato quasi tutta la vita rinchiuso nel canile.

 

Ricky rimane però un duro. Ha la grinta di chi ha dovuto sempre arrangiarsi, di chi ha sempre dovuto lottare per mangiare. Nei primi tempi della sua nuova vita con me, spesso faceva addirittura pipì nella ciotola piena di cibo, marcandola per il timore che qualche altro cane potesse approfittarne. Allo stesso modo, durante le passeggiate al guinzaglio, se incontra un altro maschio, non importa di che taglia sia, si irrigidisce e gonfia il petto scarno. Abbassa la testa come un vecchio pugile, la incassa tra le spalle, libera un sordo brontolio ringhioso.

 

Eppure è capace di dolcezze infinite. Spesso si accoccola sulla poltrona del mio studio, accanto alla scrivania, e si addormenta tenendo una zampa sulla mia coscia, per sentire che non è solo. E quando mi siedo all’aperto a leggere, lui è perfetta compagnia. Si sdraia vicino, sbuffa di piacere, mi osserva mentre passo le pagine del libro.

 

Dopo tanti anni di solitudine, ora Ricky può finalmente essere se stesso. Può finalmente fare il cane.

I cani sono animali sociali e questo significa che la loro natura è fare parte di un gruppo, essere all’interno di un clan. Solo socializzando, realizzano se stessi. Jeffrey Masson ha scritto che la solitudine è l’incubo peggiore di ogni cane, il male supremo.

 

Anche l’uomo soffre quando è solo ma, a differenza dei cani, gli esseri umani possono arrivare a fare amicizia con l’isolamento. John Milton ha scritto: “Talvolta la solitudine è la miglior compagnia”. E Henry D. Thoreau: “Amo la solitudine. Non trovai mai un compagno che fosse tanto buon compagno della solitudine.” Gli uomini quando sono soli leggono, scrivono, scolpiscono la pietra, dipingono tele. Ma un cane non possiede questi svaghi per lo spirito. Lui è puro e basilare. Nato per condividere, se non può farlo non è in grado di creare artifici e surrogati. Semplicemente si dispera. E cade in un incubo di depressione dal quale è impossibile uscire.

Ecco perché l’abbandono è la somma di tutte le tragedie per un cane. Il rifiuto di voler vivere accanto a lui, annienta in un sol colpo l’intera sua natura. Un cane abbandonato non solo è senza cibo o senza riparo. Prima di tutto è inesistente come individuo perché non ha la possibilità di vivere secondo le proprie inclinazioni.

 

So tutto questo. E mi tormento cercando di immaginare la vita che ha fatto il mio cane prima di incontrarmi. Ho visitato l’ultimo canile nel quale è stato rinchiuso. Mi sono caricato del peso di quegli sguardi di supplica, di quei lamenti che sembrano domandare perché, dell’odore forte che è quello dei rifiuti ma soprattutto della paura. E una volta a casa, ho stretto al petto Ricky beandomi della trasformazione che la nuova vita ha operato in lui. Il pelo è diventato morbido e lucido, l’andatura più sicura, il sonno sereno e senza gli incubi dei primi giorni.

 

Sento dentro una sorta di calore guardandolo dormire sul divano, mentre scrivo. Un calore come quello che si avverte quando si mette a dimora nel terreno una pianta che prima era relegata in un vaso, o si riporta nel nido un uccellino caduto. Come quando si libera un fiore dalle erbe infestanti.

Roberto Allegri