UN CAFFE’ CON IL PROFESSOR MASSIMO CENTINI

 

Le leggendarie creature dei boschi

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Foto di Nicola ALLEGRI

Quando cammino lungo i sentieri di campagna, costeggiando i campi di erba medica e i boschi di castagni, ho sempre l’impressione di essere osservato. Non è una sensazione spiacevole, non provo disagio. L’occhio che sento su di me è benevolo e protettivo. Non minaccioso. casomai curioso.

Forse è solo suggestione, forse sono solo gli scoiattoli e i cinghiali. Però, mi piace anche pensare che possano essere elfi oppure folletti: qualche spiritello felice del mio accarezzare la natura.

Ogni Paese del mondo possiede leggende e storie che parlano di creature abitanti dei boschi. Creature che hanno i nomi più diversi: folletti, gnomi, elfi, coboldi, nanetti, monacelli, fate, silfi, trolls, gremlins, ninfe, uldras. Alcuni di questi sono diventati protagonisti di libri, come i celeberrimi gnomi di Wil Huygen e Rien Poortvliet. Oppure i Minimei, il popolo dei boschi del romanzo “Arthur e il popolo dei Minimei” di Luc Besson. E come non citare i sette Nani di Biancaneve, protagonisti prima di una fiaba dei fratelli Grimm e poi dell’indimenticabile film di Walt Disney del 1937. Sembra quasi che tutti i popoli vogliano credere con forza all’esistenza di spiriti e spiritelli nascosti dietro le foglie o nei tronchi degli alberi.

<<Nelle creature delle leggende si trova il desiderio che l’uomo ha sempre avuto dentro di sé di vivere in armonia con la natura>>, mi ha detto il professor Massimo Centini. <<Un sentimento che era valido un tempo, ma che ancora oggi l’uomo sente forte dentro di sé. Molti di noi sentono la necessità impellente di ritrovare un legame con la terra, un legame perduto ma capace di completarci. I leggendari esseri dei boschi ci insegnano la strada per tornare a quella armonia originaria.>>

Ho incontrato il professor Centini nella sua casa-studio di Torino. Ero in città per lavoro e gli ho telefonato per salutarlo dal momento che in passato abbiamo collaborato insieme a diversi articoli per i giornali. <<Vieni da me che ci beviamo il caffè>>, mi ha detto.

Sorridente come sempre, il professor Centini mi ha parlato subito del libro che sta scrivendo, un saggio sui grandi tesori dell’antichità. L’entusiasmo che lo anima è contagioso. Docente di Antropologia Culturale presso l’Università Popolare di Torino, membro del Comitato Scientifico e del Dipartimento di Antropologia dell’A.E.ME.TRA. (Associazione Europea Medicine Tradizionali), collaboratore per la sezione etnografica del Museo di Scienze Naturali di Bergamo e ricercatore presso il Centro Studi Tradizioni Popolari dell’Associazione Piemontese di Torino, il professor Centini è uno dei massimi esperti di leggende e di folklore. Autore di una ventina di libri sull’argomento, da quindici anni si dedica allo studio del mito dell’Uomo Selvaggio, una sorta di essere primordiale che riassume in sé un po’ tutte le creature che le varie leggende collocano sulle montagne e nelle foreste. <<Una figura mitica presente nel folklore di molti paesi e soprattutto nell’aria alpina>>, mi ha raccontato, <<un essere che è espressione della Natura incontaminata.>>

Beviamo il caffè seduti tra le centinaia di statuette etniche che compongono la collezione del professore. Guardando questo omuncoli scolpiti nel legno, mi viene spontaneo portare il discorso sulle creature dei boschi e delle foreste.

<<Secondo le varie leggende, queste creature abitano i boschi ma anche i giardini, i fiumi, i ruscelli>>, mi ha spiegato il professore. <<Sempre in luoghi che hanno un rapporto con gli alberi. Infatti l’uomo ha sempre avuto una forte venerazione per gli alberi, li ha sempre considerati “magici”, e in alcuni casi li ha elevati ad un livello superiore umanizzandoli, facendoli parlare, muovere e interagire con gli altri esseri viventi. In tutte le culture l’uomo ha avvertito l’energia emanata dagli alberi e ne ha tratto insegnamenti che poi ha trasferito nelle mitologie e nelle religioni. Basti pensare all’Apocalisse di San Giovanni in cui si dice che al suono della quinta tromba, quando sulla terra si abbatteranno le cavallette, Dio ordinerà loro “di non recar danno né a erba della terra né a piante né ad albero alcuno.” Da questa venerazione sono derivate quindi le molte leggende che trattano di spiriti di natura abitanti degli alberi e dei boschi.

<<Ora. queste creature sono in perfetta armonia con l’ambiente naturale. Ma non sempre esse sono in armonia con l’uomo. Le leggende parlano di creature dei boschi buone o cattive, a seconda dei casi. Anticamente le religioni pagane adoravano gli spiriti della natura, basti pensare ai Druidi che vedevano negli alberi le massime divinità. Col passare del tempo, quando la religione cristiana si oppose al paganesimo, tutto ciò che aveva attinenza con gli antichi culti venne rivestito di una aura malvagia, pericolosa. Il bosco divenne perciò  “la selva oscura”, un rifugio per creature ostili che insidiavano gli esseri umani. Da questa situazione derivarono leggende con creature buone e altre con creature malvagie.

<<Sono solo credenze e miti. Ma ci sono da sempre persone che affermano di aver visto più volte queste strane creature. La scienza non dà loro credito, certo. Ma alcune di queste persone sono autorevoli e in passato hanno difeso strenuamente la reale esistenza degli spiriti abitanti dei boschi. Uno di questi è stato sir Arthur Conan Doyle, lo scrittore che creò il personaggio di Sherlock Holmes. Conan Doyle credeva ciecamente nelle fate.

<<Oltre che impareggiabile scrittore, lui era anche un grande appassionato di parapsicologia, di occulto e aveva scritto persino un’enciclopedia sull’argomento. Negli anni Venti difese, con articoli e con un libro, due ragazzine inglesi che affermavano di aver incontrato delle fate. Nel 1917, Frances Griffith, di dieci anni, e Elsie Wright, di sedici anni, tornarono a casa dopo una gita nei boschi dello Yorkshire dicendo di avere incontrato delle fate. Rimproverate dai genitori per essere bugiarde, presero una macchina fotografica, tornarono sul luogo e fotografarono le piccole creature che avevano visto. Nell’immagine, diventata famosa, Frances è circondata da quattro piccoli esserini con le ali, a metà strada tra ballerine e farfalle. Conan Doyle, informato della cosa, esaminò la fotografia dicendo di non aver trovato nessuna traccia di trucchi. Scrisse allora due articoli sullo “Strand Magazine” e poi un libro dal titolo “La venuta delle fate” che ebbe anche una ristampa.

<<Successive indagini però dimostrarono che le foto erano false. Le due ragazzine avevano ingegnosamente fotografato delle sagome di cartone. E la stessa Elsie, ormai ottantenne, confessò prima di morire che si era trattato di uno scherzo ma che sia lei che Frances avevano mantenuto il segreto per non mettere nei guai il grande scrittore. Questa storia dimostra che Conan Doyle voleva credere con tutto il cuore alle fate. E anche molti di noi sentono, istintivamente, di ammettere l’esistenza di qualcosa di invisibile, di un’energia che si trova solo nella Natura.>>

Mentre il professor Centini mi diceva questo, ho ripensato alle mie passeggiate sulle colline, a quella piacevole sensazione di non essere solo. Mi sono così scoperto a fantasticare. Chi mi accompagna lungo i sentieri di campagna? Folletti? Gnomi? Oppure il famoso Uomo Selvaggio?

<<L’Uomo Selvaggio è il protagonista di un mito diffuso in diverse culture ma in particolare sulle nostre montagne>>, mi ha spiegato ancora Centini, quasi mi avesse letto nel pensiero. <<Forse è lo stesso essere che ha dato origine al mito dello Yeti in Nepal, del Bigfoot nel nord degli Stati Uniti, dell’Almas in Mongolia. Io cerco le sue tracce da quindici anni nelle storie dei pastori, nelle vecchie leggende e mi ha affascinato perché rappresenta la parte di noi rimasta selvatica, attaccata alla Natura, ai ritmi primordiali e puri. L’Uomo Selvaggio dovrebbe essere una creatura un po’ uomo e un po’ animale, di buon carattere, che nel corso della sua storia ha insegnato ai contadini l’arte antica di fare il formaggio, di allevare le api, di estrarre i minerali dalla terra. E’ un guaritore ma evita gli uomini “civili” perché da loro non riesce a farsi capire. L’uomo civile impreca contro la neve che imbianca le strade, contro il vento o la pioggia e le altre espressioni della Natura. E per questo non potrà mai dialogare con la parte selvaggia che alberga in lui. Non potrà mai capire l’Uomo Selvaggio se per caso dovesse incontrarlo.>>

<Non è il mio caso>>, ho risposto prontamente. <<Io accetto tutto della campagna dove vivo, ogni sua espressione, perché tutte hanno un preciso significato.>>

<<E fai bene>>, ha detto Centini. <<La maggior parte delle persone non gode più delle cose semplici della vita, non alza più la testa a guardare le nuvole e non si ferma più a seguire il volo di un insetto. Questo non rende l’uomo più felice. Ecco perché molti di noi sentono impellente la necessità di ritornare sui propri passi e di cercare fate e folletti. Sentono la necessità di cercare quel “selvaggio” che potrà salvare loro la vita.>>