Straordinaria intervista con l’unica donna al mondo che ha scalato sette vette oltre gli ottomila metri senza bombole di ossigeno e senza portatori

 

UNA LEGGENDA DI NOME NIVES

 

Testo e foto di Nicola Allegri

 

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E’ partita il due aprile. Ha un progetto ambizioso in testa: diventare la prima donna a conquistare tutte e quattordici le vette che nel mondo superano gli ottomila metri di altezza. Un’impresa ciclopica. <<Impossibile per una donna>>, dicono gli esperti. Ma lei, Nives Meroi, 43 anni, bergamasca trapiantata a Tarvisio, è già a metà strada.

<<Ho scalato sette vette che superano gli ottomila>> dice. <<Prima della fine dell’estate, se tutto andrà bene, dovrei arrivare a dieci. Ma non scalo per un record. A me piace solo “girare” qua e là sulle montagne>>.

Occhi di un azzurro intenso e magnetico, fisico snello e agile, una grazia e una gentilezza nel raccontare che incantano. La chiamano “gazzella delle nevi” per lo stile con cui affronta le imprese più estreme. Scala sempre senza bombole d’ossigeno e senza portatori d’alta quota. Sale lungo i fianchi rocciosi come se calpestasse un luogo sacro. Vive ogni attimo dei suoi viaggi con lo spirito di chi si ricongiunge a una parte di sé che per troppo tempo era rimasta isolata. Quando parla della montagna, è come vedere una bimba che parla della sua mamma.

L’abbiamo incontrata a Tarvisio, dove abita, alla vigilia della partenza per questa sua ennesima impresa. E ci ha concesso questa straordinaria intervista, dove, tralasciando il linguaggio tecnico e ufficiale, apre il suo cuore e racconta speranze, gioie, sogni, ma anche paure e grandi sofferenze.

<<Lei parte per una ennesima impresa: di che si tratta?>>

<<Tento la scalata di tre nuovi giganti oltre gli ottomila metri. La prima tappa sarà il Dhaulagiri, imponente massiccio nella catena dell’Himalaya. Il suo nome sanscrito significa “Montagna Bianca”. L’anno scorso, con il mio gruppo, ho mancato la cima per soli dieci metri. Salendo la cresta finale della montagna siamo arrivati in un punto dove c’era un palo di alluminio, segno che per qualcuno quel punto era la vetta. Abbiamo visto invece che la vera cima si trovava due cucuzzoli più in là rispetto alla nostra posizione. Ma per arrivarci avremmo dovuto attraversare la cresta ed era troppo pericoloso perché eravamo senza corda. La stagione sul Dhaulagiri era appena iniziata e pensavamo di avere di fronte a noi molti altri giorni buoni. In realtà il tempo è stato infame e non ci ha più permesso di salire. Abbiamo tentato diverse volte, ma niente.

<<Una volta a casa, ho parlato con Kurt Diemberger, il leggendario alpinista che nel 1960 è arrivato sulla cima del Dhaulagiri senza ossigeno. Lui si ricordava tutti i passaggi e mi ha detto che in effetti la cima ufficiale era proprio due cucuzzoli più in là. Quindi, anche se solo per dieci metri, dobbiamo ritentare. Se riusciremo, ci trasferiremo sull’Annapurna, altro massiccio himalaiano sopra gli ottomila. E poi, i primi di giugno proveremo il K2>>

<<Chi sono i suoi compagni di scalata?>>

<<Quelli di sempre. C’è mio marito Romano Benet. Scaliamo sempre insieme. Ci conosciamo alla perfezione e lassù l’intesa conta molto. E poi Luca Vuerich, che realizza anche le foto dei nostri viaggi. Siamo un gruppo molto affiatato>>.

<<Nella storia dell’alpinismo, solo tre donne hanno conquistato 7 vette superiori agli otto mila metri ma lei è l’unica al mondo ad averlo fatto senza ossigeno e senza portatori d’alta quota. E’ uno “stile” tutto suo nell’affrontare le scalate?>>

<<Io lo chiamo “alpinismo di rinuncia”. L’ho imparato qui, sulle nostre montagne, crescendo con mio marito e gli amici del gruppo. Rinunciamo ad ogni aiuto esterno, ad ogni aiuto tecnologico e di conseguenza ad ogni certezza. Cerchiamo un confronto onesto con la montagna e per questo si sale senza l’uso delle bombole di ossigeno, e senza l’aiuto dei portatori di alta quota: non se ne parla proprio di mettere una persona nelle condizioni di rischiare la vita per noi.

<<Io poi, non rincorro la vittoria. La conquista della vetta ad ogni costo non fa parte del mio carattere. L’alpinismo, soprattutto quello che si pratica sull’Himalaya, offre l’opportunità di unire due passioni: le scalate e i viaggi. Per arrivare al campo base delle montagne si cammina per molti giorni attraverso numerosi paesi. Si vedono posti, si conoscono persone. Proprio perché ci si cammina dentro, con lentezza, si apprende. E’ una conoscenza che si raccoglie da terra, camminandoci sopra. Quando torno da una spedizione, mi accorgo che l’arrivo in vetta è stato solo una parte del tutto>>.

<<Che cosa si prova quando si arriva in vetta?>>

<< E’ un attimo magico. Avviene poche volte nella vita, e sempre in condizioni fisiche estreme. Contrariamente a quello che si può immaginare non ci si lancia in grida di gioia ma si resta in silenzio. E’ un momento molto intimo. Si ha la sensazione di abbracciare l’orizzonte ma non è mai uno sguardo di conquista. Non si domina niente lassù. Lo si abbraccia. Si ha la netta certezza di essere parte del tutto. Di ricongiungersi a qualcosa di immenso. Io dico sempre che le montagne ci conquistano sempre e solo a volte si lasciano conquistare>>.

<<Quando è nata il lei la passione per la montagna?>>

<<Io sono originaria di Bonate Sopra, in provincia di Bergamo. Sono quindi nata in pianura, senza le vette nel sangue. Quando sono arrivata qua a Tarvisio, da ragazzina, mi sono avvicinata adagio alla montagna, poco per volta. Ma non avrei mai pensato di diventare un’alpinista e tanto meno di scalare gli ottomila. Tutto è cambiato dopo che ho incontrato Romano, mio marito. Praticamente siamo cresciuti insieme e lui mi ha trasmesso l’amore per la montagna.>>

<<Quali sono i rischi più insidiosi che si incontrano in queste imprese?>>

<<Ci sono le bufere, le valanghe, le scariche di sassi, lo sfinimento, il congelamento, gli edemi. Solo alcuni sono prevedibili. Devi sempre essere consapevole delle tue capacità e dei tuoi limiti. Io non sono un’amante del rischio, una drogata di adrenalina. Ho sempre paura quando salgo in montagna ma il mio non è panico. E’ una paura sana, che aiuta a mantenere la massima concentrazione.  Una volta, sul K2 siamo rimasti cinque giorni e cinque notti bloccati da una bufera. In tre dentro una tenda di due metri quadri, 24 ore su 24, a 6000 metri di altezza. Ricordo che le raffiche di vento erano fortissime e pensavamo potesse strappare la tenda. Non avevamo più la cognizione del tempo. In un’altra occasione, a cento metri dalla vetta, mi si è sganciato improvvisamente un rampone. Senza ramponi significa non poter far presa sul ghiaccio. Per fortuna c’era un tratto di corda tesa e avevo la piccozza. Zoppicando sono arrivata in cima. Quell’errore poteva costarmi caro. L’anno scorso sul Dhaulagiri, a 6800 metri, ci ha beccati un temporale. Un caso rarissimo a quella quota. Siamo stati costretti a scendere velocemente. L’aria era talmente carica di elettricità che la piccozza sfrigolava in mano. Più di una volta abbiamo dovuto gettarla nella neve per evitare di innescare la scarica del fulmine.

<<Sono episodi che a raccontarli, fanno rabbrividire, ma quando li stai vivendo, ti accorgi invece di analizzare freddamente la situazione, alla ricerca di una soluzione che ha l’obiettivo di salvare la pelle>>.

<<Praticamente, come si svolge la scalata di una vetta di ottomila metri?>>

<<Si parte da un campo base che è intorno ai cinquemila metri di quota. Lì c’è la tua tenda, la tenda della mensa, i ragazzi che cucinano. Insomma è come essere a casa. Noi che scaliamo senza bombole di ossigeno, dobbiamo praticare una fase di acclimatamento. Si deve cioè abituare l’organismo alla carenza di ossigeno e per fare questo sono necessarie delle salite progressive: si sale per un po’ e poi si torna al campo base per due giorni di riposo. Poi si sale un po’ di più e così via. In genere il tempo di acclimatamento dura una ventina di giorni. Venti giorni è un tempo limite, perché se da una parte l’organismo si abitua all’altitudine, dall’altra si degenera per la mancanza di ossigeno. E’ quindi una questione di equilibrio. Mediamente per salire su un ottomila ci vogliono quattro campi intermedi. Noi riusciamo a farne solo due perché abbiamo ritmi di scalata molto alti. Colpa di mio marito che ha sempre fretta di scendere al campo base per mangiare la pastasciutta>>.

<<Anche chi usa le bombole d’ossigeno deve fare questi esercizi di acclimatamento?>>

<<Ovviamente no. Andando con l’ossigeno non c’è bisogno di fare tutti questi sali e scendi. L’organismo non soffre. Durante la scalata senza bombole invece, è tutto complicato. La cosa più difficile è respirare. Gonfi il petto ma è come se non entrasse niente. Il corpo lavora più lentamente, proprio per la mancanza di ossigeno. E lentamente degenera sotto tutti i punti di vista: cerebrale, dei tessuti, degli organi. Praticamente sei un ammalato che cammina. L’università di Udine ci ha studiato per capire i meccanismi di degenerazione ad alta quota e quelli di recupero una volta tornati alle condizioni normali

<<Come sono le notti,in tenda, a quelle altezze?>>

<< Durante le salite, che sono davvero molto faticose, non si ha quasi la forza di pensare. Ma di notte si pensa molto. Io penso spesso alla vita che faccio a casa e la vedo come una cosa lontana, quasi un vago ricordo. Lassù è come essere su un altro pianeta. E’ tutto diverso. Sono diversi i problemi ma anche i sogni e le speranze. La madre terra, con la sua maestosa grandezza ci fa sentire dei puntini nell’universo. Ci insegna la vita e noi, con tanta dedizione, cerchiamo di riportare a casa, e di raccontare, i suoi preziosi consigli>>.

 

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