PADRE PIO E GLI ANIMALI

Caro Tony e cari amici che seguite questo angolo. Sto scrivendo al computer ma con difficoltà. La mia gatta Butterfly si è sdraiata sulla mia scrivania, proprio vicino al mouse e quindi compiere le normali operazioni richieste dalla scrittura diventa un problema. Ma se le chiedo di spostarsi, mi guarda indispettita. Dovrei cacciarla via, ma non lo faccio. So che le fa piacere stare vicina a me, quando lavoro,  e quindi sopporto. E poi, è una gatta speciale. In collaborazione con mio figlio Roberto, ha scritto un libro, che si intitola “Vita da gatti”. Quando è uscito in libreria, vari giornali si sono interessati di lei, hanno pubblicato la sua foto e lei , da allora, si dà delle arie. Sua sorella, che si chiama Amneris, è invece umile e riservata. Ma anche lei ama stare vicino a me quando lavoro. Questa mattina mi ha preceduto nello studio e si è impossessata della mia poltrona. Per lavorare, sono dovuto ricorrere a una sedia di emergenza, nella quale non si sta per niente comodi. Pazienza!

Avete capito che sono un po’ schiavo dei miei gatti. Ebbene, lo confesso, è proprio così. Vivo con sei gatti e due grossi cani. Per fortuna, abito in campagna, dove i miei animali hanno la possibilità di avere tutto lo spazio che desiderano. Ma in questi giorni uggiosi di freddo e neve (qui da me ci sono 40 centimetri di coltre nevosa) i miei gatti e anche i miei cani preferiscono poltrire in casa.

L’amore per gli animali viene spesso criticato dai benpensanti. Soprattutto quando è eccessivo. I gattofili vengono rimproverati di amare i gatti e non le persone. Una mia amica, Adriana Maliponte, famosa cantante lirica e gattofila estrema, rispondendo a simili critiche, mi disse un giorno: <<Ricordati: l’amore è uno solo. Chi ama gli animali, ama anche le persone. Ma non sempre è vero il contrario>>.

Non so questo principio di Adriana Maliponte trovi sempre riscontro nella realtà della vita.  Ma a volte, osservando il  comportamento di certe persone, constato che ha ragione. L’amore è uno solo. Chi ha il cuore arido, non ama nessuno.

Ma tutte queste chiacchiere le ho fatte perché voglio richiamare la vostra attenzione su un aspetto particolare della vita di un personaggio assai noto nel nostro tempo, Padre Pio da Pietrelcina.  Anzi, San Pio da Pietrelcina.

Come scrittore, io mi sono occupato molto di questo grande santo, sia con articoli che con dei libri. Il primo articolo su di lui lo scrissi nel 1967, dopo averlo incontrato a San Giovanni Rotondo, e quell’articolo fu seguito poi da centinaia di altri articoli e anche da libri. Ho scritto nove volumi sulla vita di Padre Pio, tutti pubblicato da Mondadori e tutti ancora presenti in libreria nella prestigiosa collana dei “Best seller Oscar Mondadori”.

Da uno di quei libri è stato tratto anche il film per la televisione interpretato da Sergio Castellitto. Ebbene, poco tempo fa, una rivista mi ha chiesto di scrivere un articolo su “Padre Pio e gli animali”. Mi pareva un tema insignificante, frivolo anche. Invece, facendo delle ricerche, ho trovato degli spunti che mi sembrano importanti. Spunti che riverberano sull’amore per gli animali significati altissimi e prospettavano “verità” straordinarie.

Voglio perciò riportare qui, in questo spazio, l’articolo che ho scritto, sicuro di fare cosa gradita soprattutto a coloro che, come me, amano gli animali. Ecco l’articolo. San Pio da Pietrelcina, il nostro caro Padre Pio, amava gli animali. E’ inimmaginabile che un francescano, cioè un seguace di San Francesco, non abbia attenzione e amore per la natura, per tutte le creature e quindi per gli animali. Ma è confortevole poterlo constatare.In un tempo come il nostro, amare gli animali è, per certi aspetti, una moda. Ma questa moda poggia, anche se chi la segue non ne è consapevole,  su una profonda verità: ogni forma di vita proviene da Dio, è testimonianza della potenza di Dio, dell’amore di Dio. Non è mai esistito nessun santo “indifferente alla vita”. Giovanni Paolo II, che innumerevoli volte ha parlato a favore dell’amore e del rispetto per gli animali, ha detto il 10 gennaio 1990: <<Non solo l’uomo ma anche gli animali hanno un soffio divino>>.

 

E Paolo VI, parecchi anni prima, aveva affermato: <<Gli animali sono la parte più piccola della Creazione Divina, ma noi un giorno li rivedremo nel Mistero di Cristo>>. Queste due frasi vanno meditate. La prima, quella di Giovanni Paolo II, fa capire che anche gli animali hanno un’anima; la seconda, quella di Paolo VI, ci dice che faranno parte del “Mistero di Cristo”, cioè della Risurrezione, e della vita eterna.

Non si conoscono molte testimonianze che dimostrino l’amore di Padre Pio per gli animali. Certamente ce ne saranno tante, ma è comprensibile che siano state trascurate. L’esistenza terrena del Padre fu talmente zeppa di eventi, fatti prodigiosi e misteriosi, sofferenze, vicende ingarbugliate, polemiche, incomprensioni, da polarizzare l’attenzione dei biografi su quei temi, lasciandone in ombra molti altri, di minor rilevanza, anche se, a volte,  assai significativi per far comprendere la bontà dell’animo e la sensibilità del cuore di questo santo. Tuttavia, cercando si trovano spunti più che sufficienti per capire quanto grande e profondo fosse l’amore del Padre per “tutte le creature”.

La prima testimonianza illuminante non riguarda lui, ma suo padre, Grazio Forgione. I biografi ce lo descrivono come un uomo intelligente e cordiale, estroverso, che amava cantare e stare con gli a mici. Lavoratore indefesso. Possedeva della terra e la lavorava con le proprie mani, ricavando da essa il necessario per mantenere la famiglia. Era quindi un uomo rotto alla fatica fisica, abituato ad alzarsi presto al mattino e andare a letto tardi la sera con le membra indolenzite.

Ebbene, quest’uomo, nonostante le preoccupazioni e i pensieri, aveva una grande sensibilità d’animo. Non aveva studiato, era analfabeta, ma il suo cuore era quello di un “poeta”, in sintonia con la natura, aperto alla Grazia e al soffio dello Spirito. Per questo il suo agire era illuminato, saggio.

Alcuni suoi coetanei hanno riferito che, quando lavorava la terra, se vedeva un insetto, una formichina, o un lombrico, non li schiacciava con la vanga o con la zappa, come verrebbe spontaneo fare. Con le sue mani forti e callose, prendeva delicatamente quel piccolo essere e lo spostava, lo metteva altrove dicendo: “Povero animaluccio perché dovrebbe morire?”

E non si tratta di un fatto singolo. Questo era il suo modo di agire, una consuetudine sua propria, che lo contraddistingueva, tanto che, appunto, è stata tramandata. Un modo di fare che dimostra come il suo cuore era aperto al grande amore universale, alla sensibilità dell’uomo giusto, semplice, del cristiano coerente, capaci di intuire la grandezza della “vita” in tutte le sue forme.

Chissà quante volte Francesco avrà visto il proprio babbo spostare con le sue mani un animaluccio per non ferirlo. Ed è noto che, quando si è piccoli, la mente registra,  valuta, elabora, apprende, e, poi, al momento opportuno, ricorda, formulando modelli di comportamento. Quel gesto era una lezione per Francesco. Grazio, con il suo agire, trasmetteva al bambino un insegnamento che affondava le radici su un principio filosofico e teologico profondo: il rispetto della vita che proviene da Dio.

E il piccolo Francesco imparò la lezione, come ci viene riferito da altre testimonianze. Da  bambino era curioso e vivace. Fino a dieci anni, non frequentò la scuola ma andava a pascolare cinque pecore. Ci andava con alcuni amici e, mentre le pecore brucavano l’erba, loro giocavano. Uno dei passatempi era “andare a caccia di nidi”. Un tempo lo facevano tutti i ragazzi di campagna. E non solo per istintiva curiosità ma anche per una “necessità alimentare”. Era un mezzo per procurare del cibo alla famiglia. Nessuno allora se ne meravigliava o condannava quell’attività come azione disdicevole. Come nessuno condanna le persone che allevano le galline per poi mangiarle.

Francesco cresceva come gli altri suoi coetanei e non si dissociava dalle loro abitudini se non quando risultavano moralmente cattive. Quindi, anche lui saliva sugli alberi e andava a “caccia di nidi”. Ma i suoi compagni di avventura riferirono in seguito che non aveva il coraggio di prendere gli uccellini dal nido. Li indicava ai  compagni, ma lui non li prendeva.

A Natale, amava fare il presepio. A quei tempi non si andava al supermercato a comperare le statuine, le luci colorate, le casette eccetera. Chi voleva il presepio, doveva inventarselo. In genere i genitori lo costruivano per i figli, ma Grazio aveva altro cui pensare. E Francesco si arrangiava. Con la terra creta modellava i pastori, le pecore, gli angeli, San Giuseppe, la Madonna e il bambino Gesù. Per il Bambino aveva una grande attenzione. I suoi amici di allora raccontarono che faceva e rifaceva più volte quella statuetta perchè gli pareva che non venisse mai bella come lui desiderava.

Preparate le statuette, bisognava pensare alle luci, che avrebbero dato suggestività e incanto al presepe. A Pietrelcina non c’era ancora la corrente elettrica e bisognava ricorrere a lumini a olio. Dovevano essere delle lucerne molto piccole, da inserire nel muschio, vicino a casette minuscole e accanto a gruppi di pecore. L’ingegnosità dei ragazzi di Pietrelcina di quei tempi era notevole. Avevano imparato a costruire i lumini da inserire nel presepe con i gusci di lumache. Cercavano nei campi delle lumache con il guscio. Poi toglievano gli inquilini, pulivano per bene il guscio, lo riempivano d’olio, ci mettevano uno stoppino e avevano ottenuto una magnifica piccola lucerna.

Però, snidare l’inquilino dal guscio significava uccidere la povera lumachina. Di questo se ne rendeva conto il futuro santo. E mentre i suoi compagni neppure si ponevano il problema, lui ci pensava e ne soffriva. Non c’erano tuttavia altre soluzioni, se voleva mettere le luci nel presepe. Era, perciò, costretto ad adattarsi, ma lo faceva con dispiacere, soffrendo. I suoi compagni d’infanzia, che lo aiutavano a costruire il presepe, riferirono che lui partecipava alla raccolta delle lumache ma non all’operazione dello svuotamento. Affidava il compito al suo amico Luigi Orlando e non voleva neppure assistervi. Certo, era un comportamento forse un po’ “vigliacco” se si vuole, ma indicativo di una sensibilità, di un orientamento.

Da piccolo, nella sua abitazione in Vico Storto Valle, Padre Pio aveva certamente un gatto. Forse ne aveva anche due o tre. A quel tempo erano diffusi nelle case. Servivano a tenerle libere dai topi. Si deduce che avesse il gatto perchè nelle vecchie porte della sua casa c’era il “buco del gatto”, cioè quell’apertura tipica, che permetteva ai mici di andare e venire a loro piacimento e che esisteva in quasi tutte le abitazioni di Pietrelcina.

Dopo i dieci anni, Francesco cominciò ad andare a scuola privatamente. Per seguire le lezioni, doveva rimanere al paese anche quando il resto della famiglia si trasferiva nella masseria di Piana Romana per il lavoro dei campi. Francesco era costretto a vivere nella sua casa di Pietrelcina completamente solo, anche per diversi giorni di seguito. Solo, con gli animali domestici che doveva accudire. Si preparava da mangiare e preparava il cibo anche per loro. Quindi, anche per il suo gatto. Quando pranzava in casa, da solo, Francesco aveva certamente la compagnia del suo gatto. Quando si metteva a studiare, il gatto forse si accovacciava accanto a lui, o sulle sue ginocchia. Si saranno guardati negli occhi. Il gatto gli avrà fatto le fusa, strofinandosi contro di lui e ricevendo in cambio delle carezze. Francesco certamente gli avrà voluto bene, perché non è possibile non voler bene a questo misterioso e magico animale. Sapendo poi che questi felini domestici amano il caldo, chissà, forse, nei mesi freddi, il gatto si sarà accoccolato su letto di Francesco, ai suoi piedi, scaldandoglieli e, a sua volta, ricevendo calore.

In un manoscritto di memorie, che risale agli Anni Venti, è riferito un episodio straordinario, che ha quasi del prodigioso. La fonte da cui proviene è attendibile. Chi racconta è una persona che il quel periodo viveva nel convento di San Giovanni Rotondo e aveva una grande consuetudine con Padre Pio.

Nelle ore di svago, a volte il Padre partecipava a delle partite a bocce nell’orto del convento. Un giorno, mentre stava tirando una boccia, ecco che un gatto  attraversa il piccolo spazio dove si teneva il gioco. Gli altri gridano per cacciarlo e, lui, spaventato, si mette a correre, ma nella direzione che aveva la boccia lanciata da Padre Pio. Se questa avesse seguito la naturale traiettoria avrebbe colpito l’animaletto che sarebbe uscito malconcio dall’impatto e poteva anche rimetterci la vita. Ma Padre Pio vegliava. Ed ecco che i presenti videro la boccia arrestarsi misteriosamente in aria e poi cadere di lato, evitando così di colpire il povero micio spaventato.

Per un certo periodo, i Frati di San Giovanni Rotondo tennero un cane lupo. Era terribile e faceva paura a tutti gli estranei. Per questo, durante il giorno, lo tenevano a catena nell’orto e veniva liberato solo alla sera tardi in modo che potesse fare la guardia. Il cane era stranamente affezionato a Padre Pio, che era prodigo di carezze con lui. E si racconta che tutte le sere, infallibilmente, appena lasciato libero, infilava di corsa la porta del convento, saliva al primo piano e andava a “bussare” alla cella di Padre Pio. Se ne ritornava nell’orto solo dopo che il Padre aveva aperto la porta e lo aveva accarezzato per un po’.

Renzo Allegri