Caro Tony, ho letto con attenzione e commozione  la tua e-mail di questa mattina, in cui, in vista della giornata della memoria per  ricordare la Shoah,  proponi alla nostra riflessione brani che riguardano la vita nei Lager tedeschi. Sono documenti agghiaccianti, che pongono interrogativi terribili.

E mentre leggevo, mi venivano in mente i racconti che anch’io, nella mia lunga carriera giornalistica, ho ascoltato da sopravvissuti di quei luoghi infernali. Racconti spaventosi, storie pazzesche, che hanno segnato per sempre l’esistenza di coloro che erano riusciti a tornare a casa e avevano la fortuna di raccontare. Ricordo quelle persone. I loro volti. I loro occhi. E, per quanto mi fu dato conoscere, mi resi conto che la loro vita è sempre stata, in seguito, profondamente turbata. Anche se erano riuscite a realizzarsi nella professione, anche se avevano trovato nella famiglia affetti bellissimi, quelle vittime conservavano, nel fondo del cuore, incubi, spaventi, paure inimmaginabili.

Voglio qui riferire, per te e per i lettori di questo angolo, un caso che riguarda una persona molto nota, soprattutto tra i cattolici. Nota perché è una straordinaria collaboratrice di Papa Wojtyla, fin da quando egli era assistente dei giovani universitari a Cracovia.   Mi riferisco alla dottoressa Wanda Poltawska, psichiatra. A Cracovia lavorò con Karol Wojtyla nelle attività culturali e sociali della diocesi, soprattutto per i problemi della famiglia. E, dopo che Karol Wojtyla divenne Pontefice, ha continuato a lavorare per lui,  a Roma, come membro del “Pontificio Consiglio per la famiglia”, come consultore  del “Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari” e come membro della “Pontificia Accademia per la vita”, incarichi che ancora conserva, mentre in patria è Direttore dell’Istituto di Teologia della Famiglia alla  Pontificia Accademia di Teologia di Cracovia.

 

Allo scoppio della guerra, nel 1939, Wanda Poltawska era una giovane studentessa universitaria. Aveva diciotto anni. Frequentava, i circoli degli studenti cattolici. E quando i nazisti invasero la Polonia, come tanti altri suoi coetanei, entrò a far parte della Resistenza partigiana, per difendere la patria. Ma venne scoperta, arrestata, tradotta in Germania e  trascorse cinque anni in un lager.

Tornata a casa, riprese gli studi, si laureò in medicina, si specializzò in psichiatria. Persona riservata, non parlava mai di quanto aveva sofferto. Volle però trascrivere in un quaderno quanto ricordava perché non andasse perduto. E solo all’inizio degli Anni Ottanta si lasciò convincere da un’amica a pubblicare quelle sue memorie in un libretto, che si intitola Ravenshrúck. Ho paura anche dei sogni”.

 

E’ un libro molto piccolo, ma è un documento straordinario. Svela particolari tremendi, alcuni inediti, sulle crudeltà degli aguzzini nazi­sti. Racconta la propria vicenda di giovane prigioniera che vive un dramma spaventoso ma con una commovente e meravigliosa partecipazione alla sofferenza degli altri. La Poltawska non è preoccupata di riferire, in quelle pagine, solo i propri patimenti, le proprie ansie, le proprie sofferenze. Guarda a se stessa e a tutte le compagne con lo stesso interesse.

Come, del resto, se si osserva bene, fanno molti altri tra coloro che hanno raccontato quelle terribili esperienze. E questo è un dato da tenere ben presente perché dimostra che le disumane sofferenze non spensero nel cuore dei martiri la bontà, la dignità umana, la solidarietà, come invece avvenne negli aguzzini, nei carcerieri. Chi fa il male, diventa bestia. Chi lo subisce, no. Nei Lager tedeschi ci fu l’inferno, dilagò il “Male personificato” da parte dei prepotenti carnefici, ma ci furono, invece, tra le vittime innocenti, luminosi e incredibili esempi di bene, di altruismo eroico.

<<Una sera>>, scrive Wanda Pol­tawska all'inizio di quel suo libretto di memorie  <<studiavo a casa quando all'ingresso una voce maschile, in polacco, risuonò strana e aggressiva: "Chi di voi è Wanda?" E così cominciò. Mi alzai, uscii... e sono tornata solo adesso, dopo quasi cinque anni di campo di concentramento>>.

La ragazza, dapprima fu portata al comando della Gestapo, a Cracovia, e sottoposta a un interrogatorio che durò alcuni giorni. Venne picchiata, violente­mente, con pugni in faccia, nello stomaco, minacciata con una ri­voltella. Ma non si impaurì mai. <<Dall'interrogatorio uscii con la coscienza pulita, non dissi una parola in più di quanto realmente volessi, nessuno per colpa mia in alcun modo è stato accusato>>.

Venne rinchiusa in una cella zeppa di persone. <<Nella prigione c'erano pidocchi, pulci, sporcizia, non c'era l'acqua ed era scoppiato il tifo. Di notte, a volte, all'improvviso, accendevano le luci facendoci stare sull'attenti, cominciavano a chiamare alcune di noi. Dopo, in cella, non si dormiva più, si pregava per quelle che erano andate via. E poco dopo, sotto le nostre finestre sentivamo i colpi d'arma da fuoco dell'esecuzione>>.

Dopo quasi sette mesi, le prigioniere furono caricate su un treno merci e inviate in Germania, nel famigerato lager di Ravensbruck, dove i medici tedeschi facevano esperimenti su cavie uma­ne. <<Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano distruggere la nostra personalità>>.

Cominciarono i lavori, pesanti, pesantissimi. <<Caricavano una quantità smisurata di pesi sulle nostre spalle... Ricordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro di me c'era un'altra prigioniera e l'avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Avevamo accanto le sorveglianti con terribili cani che ringhiavano minac­ciosi appena una di noi si riposava un poco. Le mani sanguinavano. Al mattino la sabbia era bagnata e pesante, durante il giorno si asciu­gava con il vento, si alzava, entra­va negli occhi, nella bocca, nelle orecchie>>.

Un tormento terribile era costi­tuito dal freddo. <<Dove dormiva­mo pendevano dal soffitto i ghiaccioli. Sulle nostre coperte c'era la brina e la sorvegliante ci ordinava sistematicamente che aprissimo le finestre dei due lati del dormitorio per colpirci con le correnti d'aria.

<<Nelle baracche dove andavamo a lavorare era, invece, molto caldo. La baracca era superaffolla­ta e sudavamo. Indossavamo vestiti leggeri, con le maniche corte. Il mio turno terminava alle cinque del mattino, ci sbattevano fuori, tutte sudate e con gli stessi vestiti leggeri rimanevamo ore e ore al gelo.

<<Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci buttavamo sulle brande e dopo un'ora suonava la sirena e dovevamo al­zarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un'altra ora ancora la sirena per l'appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli,  si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Era­vamo magre come scheletri. Neanche la vista delle donne nude, in coda per il bagno, terribilmente magre, causava più disgusto. Guardavamo con indifferenza la nostra magrezza e quella delle altre, così come la perdita dei seni e la  morte. Per la fame eravamo diventate ladre, ci rubavamo un tozzo di pane, litigavamo per poche briciole>>.

E poi, ecco, a un certo momento, l'appello di un gruppo che viene portato nel padiglione dell'infermeria, tra esse anche Wanda. Vengono lavate, un'infermiera depila le loro gambe, pratica delle iniezioni che fanno perdere la coscienza e quando le ragazze si svegliano si trovano con le gambe ingessate. Che cosa é accaduto? Non lo sanno. Vengono riportate nel dormitorio su una sedia a rotelle. Messe a letto e, nel corso della notte, quando termina l'effetto del potente sonnifero, cominciano dolori lancinanti.

Inizia così il martirio. Quelle ragazze diventano delle cavie umane per atroci esperimenti medici. Gli interventi chirurgici alle gambe si succedono a periodi fissi. Le ferite praticate vengono trattate con medicinali particolari che producono infezioni, cancrene. In quello stato le vit­time vengono abbandonate sole nel dormitorio, senza alcuna assistenza. Wanda, pur non riuscendo a reggersi in piedi, si lascia cadere dal letto e, aggrappandosi alle brande delle compagne, raggiunge quelle più sofferenti per dare loro un po' di conforto, bagna i visi bruciati dalla febbre con stracci inumiditi, conforta chi sta agonizzando. Di giorno arrivano i medici che osservano le ferite e ordinano altri esperimenti. Le povere cavie umane vengono riportate nel padiglione dell'infermeria e sottoposte ad altre orribili mutilazioni, asportazioni di pezzi di ossa, iniezioni di batteri nelle ferite. Un calvario spaventoso e interminabile. Ogni tanto una ragazza muore. Se ne vanno in questo modo in molte. Wanda le ricorda, scrivendo i loro nomi, come su una lapide, perché sono vittime innocenti, uccise da un odio assurdo, freddo, cinico, umanamente inconcepibile.

L'esasperazione delle sopravvissute è indicibile. Ma Wanda, anche in quella tremenda situazione, riesce a mantenere il suo equilibrio cristiano. «Non provavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e cercavo in loro le persone».

Questa, in una rapidissima sintesi, l'incredibile e orribile esperienza che Wanda Poltawska fece, dai 18 ai 22 anni, nel lager di Ravensbruck. Un'esperienza capace di distruggere qualsiasi equilibrio psichico, ma non quello di una donna forte, con il cuore saldo nella fede. Wanda è sopravvissuta fi­sicamente e psichicamente a quegli orrori grazie alla sua fede. Un esempio straordinario.  Peccato che il suo libro non sia stato tradotto in Italia.

Renzo Allegri

(nota di Tony: Wanda è anche protagonista di uno straordinario miracolo di Padre Pio... )

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