
          
           
          
          6 
          Luglio 2003
          
           
          
          
          
          BAGLIONI, ANCORA PICCOLO GRANDE AMORE 
          
          
           
          
          
          
          di Federico Vacalebre 
          
          
          
          Napoli. L’uomo della storia accanto racconta la sua storia più 
          kolossal, anzi più semplice, dipende se si guarda alla cornice o al 
          quadro: la cornice è un San Paolo con i suoi trentamila fans (insomma, 
          sembra proprio che almeno nella sua città Gigi D’Alessio abbia 
          sorpassato l’antico maestro), è uno spettacolo lunghissimo (tre ore) e 
          faraonico con band, orchestra e centinaia di figuranti (compresi 
          mangiatori di fuoco, ballerine del ventre, ginnasti, maestri di arti 
          marziali, circensi, sbandieratori) che agiscono su un palco enorme, 
          largo 120 metri, che attraversa lo stadio da una porta all’altra. Il 
          quadro è un ritorno alle origini, alla melodia, alle canzoni 
          nazionalpopolari che hanno fatto di Baglioni uno di quei rari 
          protagonisti della canzone destinato a sopravvivere alle mode, perfino 
          alla famigerata «Qpga», come viene indicata in scaletta il momento più 
          atteso dello show, «Questo piccolo grande amore», finalmente - per i 
          baglioniani - restituita al suo spirito originario, senza tentare di 
          rinnovarla, rapparla, rileggerla, ignorarla o qualsiasi altra cosa un 
          artista possa tentare per
          
          
          
          non restare vittima di una sua opera, la più fortunata, la più amata, 
          la più citata. 
          
          
          
          Il ritorno al futuro dà alle baglioniane della prima ora l’illusione 
          di vivere per una notte ancora nel regno incantato dov’è possibile 
          immaginare che ogni cosa sia sincera, pulita, bella e soprattutto 
          eterna. Ma i segni del tempo lasciano tracce persino sull’eterno 
          giovane Claudio, figurarsi sul suo pubblico che intanto acclama come 
          un novello divo il baglioncino Giovanni alla chitarra. 
          
          
          
          
          Si comincia contraddicendo il senso stesso di questo show costoso e 
          imponente: il divo è solo in scena, alla chitarra per di più invece 
          che al fido pianoforte, perché così è più semplice e persino più 
          «intimo» condividere il medley-amarcord che ripercorre gli inizi della 
          sua carriera: «51 Montesacro», «Signora Lia», «Tu come stai», «Viva 
          l’Inghilterra», «Amore caro amore bello», «Poster», «Porta portese»... 
          E non si tratta di un «trucco» simile a quello usato da Massimo 
          Ranieri per «liquidare» all’inizio dell’ultimo concerto i suoi hit 
          «leggeri» per dedicarsi poi alla rilettura etnica dei classici 
          partenopei, perché la scaletta in questo caso si concentra sul 
          repertorio storico del cantautore e pilucca appena dall’ultimo album, 
          «Sono io»: il brano che dà il titolo al disco, poi «Tutto in un 
          abbraccio», «Grand’uomo», il divertissement di «Serenata in sol» e 
          «Fammi andare via». Non c’è nemmeno «Requiem», i cui versi pacifisti 
          pure gli hanno meritato il Premio Lunezia: nello spettacolo «totale» 
          ma leggerissimo e senza pretese di doppia lettura che Pepi Morgia 
          (regia) e Luca Tommassini (coregrafie) hanno elaborato con lui sarebbe 
          apparso come minimo un appesantimento fuori luogo. 
          
          
          
          Eppure Baglioni reclama il suo cambiamento di uomo e d’artista, e 
          descrive una traettoria netta, sia pure rinunciando all’ordine 
          cronologico: ecco «Strada facendo», «Dagli il via», «Uomini persi», 
          «Avrai» (scritta per la nascita di Giovanni), «Cuore di aliante», 
          «Acqua dalla luna», «Bolero», «E adesso la pubblicità», «Ninna nanna», 
          «Noi no», «Mille giorni di te e di me». 
          
          
          
          Ecco l’apoteosi di «Qpga», con la melodia che non si nasconde più e 
          Claudio che la canta nonostante il coro dello stadio e gli occhi persi 
          dei ragazzi sulla maglietta fina delle ragazze, tanto stretta che 
          s’immagina tutto, anzi si vede. Sul palco l’andirivieni scenico è 
          impressionante, secondo solo a quello dei fans che prima e dopo il 
          concerto vogliono salutare l’idolo della storia accanto: tra chi ci è 
          riuscito c’è Bruno Cuomo, il napoletano vincitore di «Operazione 
          trionfo». 
          
          
          
          In scena ecco invece apparire i Neri per Caso, ospiti davvero a 
          sorpresa: fa piacere rivederli e risentirli, le loro voci a cappella e 
          la loro simpatia regalano a Claudio un’altra trovata, un’altra cornice 
          per «E tu» e la possibilità di cimentarsi con il dialetto partenopeo 
          di «’A città ’e Pullecenella». «Io sono qui», «La vita è adesso» e 
          «Via» chiudono la serata lasciando la platea stremata, confusa e 
          felice.