Dare il nome ad un gatto è una cosa davvero importante. E trovare
quello giusto è spesso difficile.
Il nome che il micio porterà per tutta la vita deve in qualche modo
riflettere non solo il suo carattere ma anche contenere tutte quelle
qualità che sono proprie dei gatti di tutto il mondo come
l’indipendenza, il senso di libertà, l’astuzia, e quella sorta di
nobiltà che tanto ci attrae. A questo proposito, disse una volta lo
scrittore Samuel Butler: “Dicono che il test per conoscere la
capacità di fare letteratura sia per un uomo essere in grado di
scrivere un’iscrizione. Io dico: è egli in grado di dare un nome ad
un gattino?”
In famiglia abbiamo una curiosa tradizione che rispecchia una
passione non solo per gli animali ma anche per la buona musica. I
nostri gatti portano nomi di personaggi di opere liriche. Così
fanno, e hanno fatto, parte del nostro “clan” Parsifal, Radames,
Kundry, Falstaff, Butterfly, Amneris, Meg, Quickly, Carmen, Micaela
solo per citarne alcuni.
<<Una
bella cosa pensare a lungo prima di darci un nome>>, mi dice
Amneris. Mi sta guardando un po’ di sbieco, come se non fosse
proprio convinta di quanto ha appena espresso.
<<Sei sicura?>>, le domando. <<Non è che preferivi essere chiamata
in un altro modo?>>
<<Amneris mi piace molto>>, continua la gatta. <<Solo che spesso ci
si dimentica che il nome più bello e soprattutto quello che ha
maggior significato è proprio il più semplice: gatto.>>
<<Gatto? Tutto qui? Ma gatto è banale.....>>
<<Tutt’altro. Il nome “gatto” contiene in sé l’intera, millenaria
storia dell’amicizia tra noi a voi esseri umani. Un’amicizia che, ti
ricordo, è tra le più sincere proprio perché non contaminata dalla
schiavitù dell’addomesticazione. Vuoi che ti spieghi?>>
<<Sì, per favore>>, rispondo. Alla mia Amneris piace da matti salire
in cattedra e impartirmi lezioni. E a me piace ascoltarla.
<<Dunque, ormai è certo che il gatto è diventato amico dell’uomo in
Africa. Fu, infatti, l’area mediterranea nordafricana il teatro che
vide, per la prima volta, l’intesa tra un uomo e un esemplare di
gatto selvatico, la prima scintilla di quella “storia d’amore” che
ancora oggi viviamo.
<<Oltre alle testimonianze dei reperti archeologici, esiste anche un
altro fatto che proverebbe l’origine mediterranea dei primi gatti
domestici: il loro nome. In Nordafrica i piccoli felini che vivono
con l’uomo sono indicati col termine di “quttah”. Ed è da questa
parola che deriva il termine latino “cattus” e quindi “gatto”. Non
solo, ma gran parte delle altre parole che in tutta Europa
definiscono il micio sono tra loro molto simili. In inglese gatto si
dice “cat” che diventa “chat” in francese e “katz” in tedesco. In
spagnolo è “gato”, in olandese è “kat” e in svedese e norvegese “katt”.
E poi nella remota Islanda gatto si dice “kattur”, in Polonia è “kot”,
a Malta è “qattus” e in Cecoslovacchia è “kocka”. In Finlandia si
dice “katti”. In lingua yddish si dice “kats”, in svizzero “kaz”, in
bulgaro “kotka” e in lituano “kate”. Persino in India, in lingua
indostana, gatto si dice “katas”. Come puoi vedere, tutte queste
lingue si riferiscono a noi mici con parole che possiedono un’unica
antica radice.
<<Se
non lo hai fatto, ti consiglio di leggere il famoso libro
“Catwatching” scritto dallo zoologo inglese Desmond Morris, che
tanto bene conosce i gatti. Lui analizza anche altri termini che
comunemente vengono usati, in lingua anglosassone, quando si parla
dei gatti. Termini che avrebbero un’origine egiziana o araba, quindi
che avvalorano la tesi dell’amicizia di origine nordafricana. Morris
evidenzia come ad esempio “kitty” che in inglese vuol dire gattino
derivi probabilmente dal turco “kedi” e cioè gatto. Anche “pussy” il
nomignolo con cui in inglese vengono chiamati un po’ tutti i gatti
deriverebbe da “Pasht” e cioè l’antico nome di Bast, la dea
dell’antico Egitto protettrice dei gatti. Inoltre, dal turco “utabi”
che specifica un gatto tigrato deriva il termine “tabby” molto usato
nei concorsi felini per indicare proprio mici dal mantello come
quello di una tigre.
<<Nel libro “The big book of cats” lo scrittore Armand Eisen
prosegue sull’argomento e spiega come la “k” sempre presente nelle
parole europee che significano gatto, si trova in tante altre parole
che in diverse lingue qualificano il micio domestico. Ad esempio i
popoli swahili dell’Africa centrale dicono “paka”, i giapponesi “neko”,
i coreani “ko-yang-ee”, i polinesiani “popoki”, gli Zulu del
Susafrica “ikati” e i malesi “kutching”.>>
E come accade ogni volta, la mia saggia Amneris smette
all’improvviso di parlare, mi guarda con affetto e se ne va con la
coda alzata.
<<Ma come fai tu a sapere tutte queste cose?>>, le dico.
Si gira, mi fissa sdegnosa. <<Noi gatti, siamo colti>>, sbuffa, e
ripende il suo cammino, lasciandomi a bocca aperta, ma con qualche
cosa di nuovo appena imparato.
robi.allegri@gmail.com
Acquista i libri di Roberto Allegri
su ibs.it
