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IL CAPOLAVORO DI HEMINGWAY
di Roberto Allegri
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Parlare di “Il vecchio e il mare” di Ernest
Hemingway può essere quasi pretenzioso. E’ un libro che si legge a
scuola, che viene usato nelle università. Sulle pagine del romanzo
si sono espressi illustri critici e i massimi esperti di letteratura
americana. A citarlo quindi, a portarlo come esempio, si corre il
rischio di voler “apparire”, darsi delle arie.
Eppure, per me, il romanzo di Hemingway è stato e continua ad essere
un’infinita lezione su come si usa la penna. Sento di poter dire
tranquillamente che tutti quelli che vogliono fare gli scrittori,
che hanno questo impulso o questo desiderio, devono almeno una volta
leggere “Il vecchio e il mare”. Anzi, probabilmente una volta sola
non basta perché, come sempre accade coi libri davvero scritti bene,
ad ogni lettura si scoprono particolari e sfumature precedentemente
sfuggiti. Così si ha l’impressione di avere tra le mani sempre un
libro nuovo.
La prima volta che ho letto “Il vecchio e il mare” avevo dieci anni.
Ricordo bene che compresi in parte la storia ma null’altro.
Hemingway non ha uno stile immediato anche se semplice. E’ un
“semplice” che nasconde una potente complessità strutturale e,
nonostante la storia raccontata sia fluida e chiara, si deve forse
avere più di dieci anni per assorbire le pagine come si deve.
In aiuto mi venne anche il film che, nel 1958,
il regista John Sturges diresse basandosi sul romanzo e sulla
sceneggiatura alla quale lo stesso Hemingway collaborò. Protagonista
del film, l’immenso Spencer Tracy che proprio quell’anno ebbe la
nomination all’Oscar come miglior attore. Il film invece vinse
l’ambita statuetta per la Colonna Sonora.
Della
pellicola ricordo, tra le altre cose, la voce narrante che, nella
versione italiana, era di Gino Cervi. Cervi leggeva dei passi del
libro in alcuni momenti salienti del film e da quel momento, ogni
volta che apro il romanzo, ne sento uscire in modo magico la voce
del grande attore bolognese.
L’età adulta mi ha poi portato una visione diversa del romanzo di
Hemingway. Più acuta e profonda. E adesso non rimango mai più di un
anno senza rimettere gli occhi a quelle frasi, a quelle costruzioni,
a quella pulizia di scrittura che innonda, permea, lascia totalmente
arricchiti.
La storia raccontata nel romanzo, apparso per la prima volta sulla
rivista “LIFE” nel 1952, è ormai arci-famosa. Santiago è un vecchio
pescatore cubano che, dopo quasi tre mesi passati senza catturare
alcun pesce, riesce a fare abboccare alla lenza un enorme marlin. La
lotta tra l’uomo e il gigantesco pesce dura tre giorni e tre notti
ma alla fine il vecchio Santiago riesce ad uccidere l’animale. Si
appresta allora a tornare verso terra, trascinando la sua preda ma
gli squali, attirati dal sangue del marlin, si avventano sul corpo
del pesce lasciando alla fine solamente la testa.
L’inizio del romanzo vale tutto. E’ il meglio di Hemingway e rivela
anche il suo mestiere di giornalista, di inviato, professione che lo
scrittore praticò per tutta la vita.
Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella
Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che non prendeva
un pesce.
Sembra l’attacco di un perfetto articolo di cronaca. Liscio, pulito,
diretto. Poche righe, senza nemmeno una virgola ad intralciare il
passo. Poche righe che dicono tutto, che raccontano esse da sole,
una storia completa.
Le descrizioni ne “Il vecchio e il mare” lasciano senza fiato.
Hemingway le scriveva sempre a mano. Disse una volta in
un’intervista: “Scrivo a mano le descrizioni perché per me è la
parte più difficile e quando si scrive a mano si è più vicini alla
carta.”
Lo stile descrittivo di Hemingway è sempre al massimo livello
dell’efficacia, in tutti i sette romanzi che precedono “Il vecchio e
il mare” e nelle centinaia di racconti. Ma nel 1952 Hemingway dà il
meglio di sé. Come se tutta l’esperienza accumulata in 53 anni di
vita, i suoi viaggi, gli incontri, tutto il tempo passato alla
macchina da scrivere si fosse condensato lì, in quel romanzo breve,
che è il suo indiscusso capolavoro.
Ecco, ad esempio, come presenta il vecchio
Santiago:
Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca.
Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai
riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i
due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano
venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Ma nessuna di
queste cicatrici era fresca. Erano tutte antiche come erosioni di un
deserto senza pesci.
A volte bastano poche parole per creare un’immagine enorme,
dilatata, che nella mente di chi legge si imprime e genera
sensazioni fisiche. Ad esempio:
Il vecchio intendeva dirigersi al largo e si lasciò l’odor della
terra alle spalle e remò nel fresco odor dell’oceano del primo
mattino.
Hemingway amava profondamente il mare. Passò quasi tutta la vita,
lui che era nato nei boschi dell’Illinois, in riva all’Oceano. Prima
in Florida e poi a Cuba. Amava la vita di mare, la gente che nel
mare trova di che campare. Era amico di pescatori e marinai e
proprio uno di questi, Gregorio Fuentes, fu l’uomo che lo ispirò
nella scrittura del personaggio di Santiago. Perciò, quello che
Santiago sente per il mare e dice sul mare è proprio il pensiero
dello scrittore che si confessa.
Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo
quando lo amano……………il vecchio lo pensava sempre al femminile e come
qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose
strane o malvagie era perché non poteva evitarle. La luna lo fa
reagire come una donna, pensò.
E ancora:
Poco prima che scendesse il buio, mentre oltrepassavano una grande
isola di sargassi che si gonfiava e muoveva nel mare chiaro come se
l’oceano facesse all’amore sotto una coperta gialla, alla lenza
piccola abboccò un delfino.
“Il vecchio e il mare” è una lezione che non finisce mai. E’
l’evidenza di come si pratica il mestiere dello scrittore, con la
costanza e l’attenzione di un artigiano al lavoro nella sua bottega.
E’ la dimostrazione di come si debba passare tempo sulla pagina a
limare, sistemare, ascoltare, livellare al fine di avvicinarsi il
più possibile alla perfezione. Lo stesso Hemingway lo disse in
un’intervista: “Molti scrittori tralasciano la parte più difficile e
insieme la più importante del loro mestiere: correggere quello che
hanno scritto, affilarlo e affilarlo finchè non diventa tagliente
come l’estoque di un torero, la spada per uccidere.”
Con “Il vecchio e il mare” Ernest Hemingway vinse il Premio Pulitzer
nel 1953. E l’anno dopo, 1954, il Nobel. Lo scrittore però non
partecipò alla premiazione a Stoccolma, portando come
giustificazione alcuni problemi di salute. Ma pare anche a causa
della sua timidezza profonda e del fatto che odiasse lo smoking.
“Mettermi un paio di mutande è il massimo di etichetta cui spero di
arrivare” disse una volta all’amico giornalista Aaron Edward
Hotchner.
Affidò però un messaggio di ringraziamento che venne letto
dall’ambasciatore degli Stati Uniti durante la cerimonia. Vale la
pena che lo aggiunga qui sotto perché non solo rappresenta “la voce”
di Hemingway ma anche l’ennesimo insegnamento su cosa significa
essere uno scrittore al di là dei riconoscimenti pubblici.
“Membri
dell’Accademia svedese, signore e signori. Non avendo facilità di
parola, né doti oratorie, né maestria nell’arte della retorica,
voglio ringraziare per il premio gli amministratori della generosità
di Alfred Nobel. Nessuno scrittore che conosca i nomi dei grandi
autori che non l’hanno ottenuto può accettarlo senza umiltà. Non c’è
bisogno di elencarli. Ognuno dei presenti può compilare la propria
lista secondo la sua coscienza e le sue conoscenze. Mi sarebbe
impossibile chiedere all’ambasciatore del mio paese di leggere un
discorso nel quale uno scrittore dice tutto quello che ha nel cuore.
Le cose possono non essere immediatamente discernibili in ciò che un
uomo scrive, e questa a volte è per lui una fortuna, ma col tempo
diventano abbastanza chiare e grazie ad esse, e alle qualità
alchemiche di cui dispone, egli resisterà al tempo o sarà
dimenticato. Quella dello scrittore è, nella migliore delle ipotesi,
una vita solitaria. Le organizzazioni possono alleviare la sua
solitudine, ma dubito che migliorino il suo modo di scrivere. Man
mano che si distacca da questa solitudine, egli acquista peso come
personaggio pubblico, ma spesso a scapito della sua opera. Perché è
un lavoro che deve fare da solo, e se è scrittore abbastanza buono,
deve affrontare ogni giorno l’eternità o l’assenza di eternità. Per
un vero scrittore, ogni libro dovrebbe essere un nuovo inizio nel
quale cercare ancora una volta qualcosa che è impossibile
raggiungere. Egli dovrebbe sempre cercare cose che non sono mai
state fatte o che altri hanno tentato invano. In questo può talvolta
accadergli, con molta fortuna, di riuscire. Come sarebbe semplice
fare della letteratura, se bastasse scrivere in un altro modo ciò
che è già stato scritto bene. E’ perché nel passato abbiamo avuto
autori così grandi che uno scrittore sente il desiderio di spingersi
parecchio al di là del punto cui può arrivare, in un luogo dove
nessuno può aiutarlo. Ma per essere uno scrittore ho già parlato
troppo. Quello che ha da dire uno scrittore dovrebbe scriverlo e non
pronunciarlo. Di nuovo vi ringrazio”.
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