Viaggio nella terra  dei tappeti e dei sorrisi dorati

UZBEKISTAN:

IL CUORE DELL’ISLAM

Foto e testo di Nicola Allegri

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Ci sono molte persone a piedi lungo i sentieri che costeggiano i campi. E' un onda di folti colbacchi, di lunghi cappotti variopinti che svolazzano al passo elegante delle donne, di bambini che alzano le braccia a salutare il passaggio del bus. Salutano me, lo straniero, e mi sorprendono con un’ospitalità alla quale l’Occidente non è più abituato.

Sono in Uzbekistan, il paese più ricco di storia fra tutte le repubbliche dell'Asia centrale. Vanta alcune delle città più antiche del mondo, con bellezze architettoniche singolari e uniche, e tradizioni che si perdono nella leggenda resistendo all’urto della civiltà consumistica. E’ grande una volta e mezza l’Italia ma ha una popolazione che è solo un quarto di quella del nostro Paese.

Sono da poco sceso all’aeroporto di Urgench e in pullman viaggio verso la città di Khiva. La strada  è un tuffo negli immensi campi di cotone non ancora fiorito. Il paese vive con il cotone, ne è uno dei primi produttori al mondo, così paesaggi come quello che mi scorre a fianco sono usuali.

Richiamo alla mente ciò che ho sui libri prima della partenza per questo viaggio. In tempi lontani, questo paese fu teatro di grandi fatti storici i cui protagonisti erano famosi condottieri e conquistatori, eserciti a cavallo, steppe infinite, lunghe carovane sull’antica Via della Seta. E poi città mitiche come Samarcanda, Urgench, Khiva, Bukhara. Oggi, però, l’Uzbekistan è profondamente cambiato.

Per 70 anni ha fatto parte dell’Unione Sovietica; poi è diventato una sofferta repubblica governata da un criticatissimo presidente, Islam Karimov, da molti giudicato un vero e proprio dittatore. Ma dopo la morte di Karimov, guarda al futuro.

E’  un’unica immensa tavolozza sulla quale si mischiano i colori, quelli dell’impero mongolo, quelli dell’ex regime comunista, della repubblica governata da Karimov e delle nuove speranze; i colori della povertà e delle tribù, delle tinte luminose dell’architettura sacra islamica, dei monumenti che tempestano le città, delle favolose ceramiche decorate, degli arcobaleni delle vesti, dei kalpak( i colbacchi), dei pashmina, del luccicare dei sorrisi dorati, memoria del regime sovietico che permetteva la moda dei denti d’oro. E’ un Paese che oggi sta cercando la propria identità vivendo in bilico tra il ricordo del suo splendore e il desiderio di farsi conoscere ancora.

Giungo a Khiva quando è ancora mattino presto. Le guide scrivono che è “la più bella città dell’Asia centrale”, “un vero e proprio museo a cielo aperto”. E’ tutta turchese, per le piastrelle di questo colore che dominano ovunque. Fu un’antica fortezza e stazione commerciale lungo la diramazione della Via della Seta, in direzione del Mar Caspio.

Conquistata, nel 1500, dagli shaybanidi uzbeki, discendenti di Gengiz Khan, divenne un fiorente mercato degli schiavi.

La gente che incontro è allegra e aperta al sorriso. Vengo subito circondato da gruppi vocianti di bambini. Si divertono a mettersi in posa davanti alla macchina fotografica, guardano estasiati nel monitor della digitale, corrono a chiamare i parenti per farsi ritrarre tutti insieme. Bambini che sono come i monumenti che li circondano, dai mille colori. Alcuni hanno tratti mongoli coi capelli corvini e la pelle come il tabacco. Altri sono biondi e hanno gli occhi come l’acqua del mare. Nessuno chiede del denaro al visitatore dall’Occidente. Nessuna mano tesa e domandare, ora che la libertà della repubblica ha reso la vita costosa e difficile.

Avverto invece dignità, persino fierezza nei gesti e negli sguardi. Una specie di purezza, di sincerità, come quella dei nostri paesini di montagna, quelli dove la tecnologia bussa forte ma le porte faticano ad aprirsi, dove si chiacchiera e ci si incontra per strada e per tutti si ha una parola.

Mi conquista la gente uzbeka. Mi conquistano lo sguardo immediato, gli zigomi tesi nel sorridere. Resto a Khiva fino al tramonto e il giorno dopo sono a Samarcanda.

E’ la città del grande Tamerlano, colui che la fece risorgere dopo che Gengiz Khan l’aveva rasa al suolo, nel 1220, e vi portò la cultura dei pittori, dei poeti e degli architetti. Samarcanda è uno degli insediamenti più antichi dell’Asia. Le sue origini risalgono addirittura al V secolo prima di Cristo. In questa città mi sento piccolo, mi sento un granello di polvere, di sabbia del deserto. I monumenti qui sono maestosi, imponenti, trasudano regalità unita ad un vivo misticismo.

A Samarcanda avverto forte il senso di spiritualità che la pervade. Vedo i pellegrini che si recano alla necropoli di Shahr-I-Zindah, la “tomba del Re Vivente”, un complesso dove riposa anche Qusan-Ibn Abbas, cugino di Maometto. Mi fermo accanto ad un vecchio seduto su una panca di legno intarsiato. Indossa un copricapo scuro, ciuffi di capelli candidi fuggono dalla lana, e tiene le mani aperte sul viso nell’isolamento della sua preghiera.

Seguo i credenti che visitano il Mausoleo di Guri Amir, dall’interno dorato, dove è sepolto il grande Tamerlano. Mi confondo con la gente che si reca camminando in fretta verso la gigantesca moschea di Bibi-Khanym dal grande portale color turchese acceso. C’è molto silenzio attorno, a tratti rotto dalla voce dei muezzin che chiamano alla preghiera. Mi rendo conto di essere al centro di un mondo islamico, ma non sento l’ostilità a cui le notizie dei giornali mi hanno abituato. Piuttosto, è come se anche io facessi parte, per qualche misterioso motivo, del tutto.

Il tempo vola. Samarcanda meriterebbe ben più di un giorno di sosta. Ma devo ripartire, alla volta di Bukhara. Per giungervi, attraverso un tratto del deserto di Kyzylkum. Si percorre una strada polverosa, un nastro chiaro che serpeggia tra colline bruciate, brune, dove a stento crescono radi cespugli che sembrano sassi. Dal finestrino dell’autobus entra l’odore del deserto, un misto di fieno e legna secca. Lungo la strada, le pietre prendono vita. Sono piccoli roditori color sabbia, a decine, che saltellano sulle zampe posteriori e si nascondono furtivi. Il deserto è un vuoto solo apparente. A guardare bene, ecco alcune gazzelle oltre ai roditori: sono magre e assomigliano a tronchi di alberi contorti. E poi, uccelli in volo, in formazione perfetta, nitidi contro il candore delle nubi.

Ad un crocevia, con paletti bianchi sbeccati dal vento e infissi nella terra gialla, ci sono tre uomini vestiti di nero. Uno di loro indossa una camicia rosso scarlatto che si nota anche da lontano. Sono seduti a terra, sembra che stiano aspettando. Forse i fantasmi degli antichi carovanieri, le anime perdute nei silenzi del deserto. Di qui passava infatti la Via della Seta che nelle città dell’Uzbekistan aveva uno strategico punto di sosta per il rifornimento di cavalli e cammelli. Per quasi mille anni questa zona è stata il centro delle attività commerciali e culturali dell’Asia. Il ponte di collegamento tra Oriente e Occidente.

Mentre il sole scende adagio e lascia il posto alla sera, arrivo a Bukhara. Mi avvio a piedi per le strade strette, un labirinto di vicoli colmi di bazar dove incontro signore molto eleganti che sorridono e mostrano tappeti e strumenti musicali, oggetti in legno e abiti di seta. Anche io sorrido, mi fermo a scambiare un paio di parole ma sento nella gambe una fretta, un’urgenza che mi spinge verso la piazza del Minareto Kalon, dove si trova anche la moschea Kalon che può ospitare oltre diecimila persone.

Eccolo l’edificio sacro. La sua facciata è fine di tratti colorati come un tappeto. Di fronte, le due cupole turchese della madrasa di Mir-i-Arab si confondono con l’ultimo cielo del giorno e osservandole ammirato non mi accorgo dei miei passi che mi portano ai piedi del grande Minareto. E’ coperto di decorazioni così fitte e armoniose da trasformarlo in un gioiello. Sembra una scultura di legno, opera del più abile artigiano. Si racconta che Gengiz Khan, il grande conquistatore mongolo, quando rase al suolo Bukhara nel XIII secolo, non toccò il Minareto. Di fronte alla sua bellezza, la furia del guerriero si placò.

L’urgenza nelle gambe non ha smesso di pulsare. Così mi scopro a salire i gradini della torre. Sono alti, sconnessi, il passaggio è stretto e la borsa con la macchina fotografica si incastra nelle pareti. Fa caldo, sono coperto di sudore e la salita sembra non avere mai fine. Numero i gradini a bassa voce ma dopo essere arrivato a cento, perdo il conto. E poi sono sulla cima. Là dove i muezzin invitavano i fedeli alla preghiera prima che questo venisse proibito dal presidente Karimov. Ho tutta Bukhara sotto di me. La piazza ha il pavimento istoriato, da terra non me ne ero accorto. La Moschea getta la sua ombra sulla poca gente che passeggia. Scorgo la moschea Maghoki-Attar, la più antica dell’Asia Centrale, il mausoleo di Ismail Samani, fondatore della dinastia samanide, la piazza Lyabi-Hauz, costruita attorno ad una enorme vasca d'acqua, dove la gente si ferma a bere il tè e a conversare.

Lassù, ho sotto gli occhi un panorama antico e lo confronto con la gente che ho conosciuto, la loro simpatia, le domande a raffica nelle poche parole inglesi che conoscono. Forse complice la spiritualità del luogo, capisco che l’Uzbekistan è una terra che arde dalla voglia di conoscere, di imparare e di crescere. E’ figlia di una storia millenaria, ma conserva uno spirito giovane, col desiderio del futuro.

Lascio un’impronta di pensiero su quel minareto. Come una bandiera offerta dall’Occidente. L’Uzbekistan ha bisogno di confrontarsi con il nostro mondo, di conoscerlo. Vuole affacciarsi all’Occidente con la speranza e l’orgoglio di chi ha molto da raccontare. Purtroppo è troppo povero per farlo e spetta a noi quindi fare il primo passo.