Quando
cammino lungo i sentieri di campagna, costeggiando i campi di erba
medica e i boschi di castagni, ho sempre l’impressione di essere
osservato. Non è una sensazione spiacevole, non provo disagio.
L’occhio che sento su di me è benevolo e protettivo. Non minaccioso.
casomai curioso.
Forse è solo suggestione, forse sono solo gli scoiattoli e i
cinghiali. Però, mi piace anche pensare che possano essere elfi
oppure folletti: qualche spiritello felice del mio accarezzare la
natura.
Ogni Paese del mondo possiede leggende e storie che parlano di
creature abitanti dei boschi. Creature che hanno i nomi più diversi:
folletti, gnomi, elfi, coboldi, nanetti, monacelli, fate, silfi,
trolls, gremlins, ninfe, uldras. Alcuni di questi sono diventati
protagonisti di libri, come i celeberrimi gnomi di Wil Huygen e Rien
Poortvliet. Oppure i Minimei, il popolo dei boschi del romanzo
“Arthur e il popolo dei Minimei” di Luc Besson. E come non citare i
sette Nani di Biancaneve, protagonisti prima di una fiaba dei
fratelli Grimm e poi dell’indimenticabile film di Walt Disney del
1937. Sembra quasi che tutti i popoli vogliano credere con forza
all’esistenza di spiriti e spiritelli nascosti dietro le foglie o
nei tronchi degli alberi.
<<Nelle creature delle leggende si trova il desiderio che l’uomo ha
sempre avuto dentro di sé di vivere in armonia con la natura>>, mi
ha detto il professor Massimo Centini. <<Un sentimento che era
valido un tempo, ma che ancora oggi l’uomo sente forte dentro di sé.
Molti di noi sentono la necessità impellente di ritrovare un legame
con la terra, un legame perduto ma capace di completarci. I
leggendari esseri dei boschi ci insegnano la strada per tornare a
quella armonia originaria.>>
Ho
incontrato il professor Centini nella sua casa-studio di Torino. Ero
in città per lavoro e gli ho telefonato per salutarlo dal momento
che in passato abbiamo collaborato insieme a diversi articoli per i
giornali. <<Vieni da me che ci beviamo il caffè>>, mi ha detto.
Sorridente come sempre, il professor Centini mi ha parlato subito
del libro che sta scrivendo, un saggio sui grandi tesori
dell’antichità. L’entusiasmo che lo anima è contagioso. Docente di
Antropologia Culturale presso l’Università Popolare di Torino,
membro del Comitato Scientifico e del
Dipartimento di Antropologia dell’A.E.ME.TRA. (Associazione Europea
Medicine Tradizionali), collaboratore per la sezione etnografica del
Museo di Scienze Naturali di Bergamo e ricercatore presso il Centro
Studi Tradizioni Popolari dell’Associazione Piemontese di Torino, il
professor Centini è uno dei massimi esperti di leggende e di
folklore. Autore di una ventina di libri sull’argomento, da quindici
anni si dedica allo studio del mito dell’Uomo Selvaggio, una sorta
di essere primordiale che riassume in sé un po’ tutte le creature
che le varie leggende collocano sulle montagne e nelle foreste.
<<Una figura mitica presente nel folklore di molti paesi e
soprattutto nell’aria alpina>>, mi ha raccontato, <<un essere che è
espressione della Natura incontaminata.>>
Beviamo il caffè seduti tra le centinaia di statuette etniche che
compongono la collezione del professore. Guardando questo omuncoli
scolpiti nel legno, mi viene spontaneo portare il discorso sulle
creature dei boschi e delle foreste.
<<Secondo le varie leggende, queste creature abitano i boschi ma
anche i giardini, i fiumi, i ruscelli>>, mi ha spiegato il
professore. <<Sempre in luoghi che hanno un rapporto con gli alberi.
Infatti l’uomo ha sempre avuto una forte venerazione per gli alberi,
li ha sempre considerati “magici”, e in alcuni casi li ha elevati ad
un livello superiore umanizzandoli, facendoli parlare, muovere e
interagire con gli altri esseri viventi. In tutte le culture l’uomo
ha avvertito l’energia emanata dagli alberi e ne ha tratto
insegnamenti che poi ha trasferito nelle mitologie e nelle
religioni. Basti pensare all’Apocalisse di San Giovanni in cui si
dice che al suono della quinta tromba, quando sulla terra si
abbatteranno le cavallette, Dio ordinerà loro “di non recar danno né
a erba della terra né a piante né ad albero alcuno.” Da questa
venerazione sono derivate quindi le molte leggende che trattano di
spiriti di natura abitanti degli alberi e dei boschi.
<<Ora.
queste creature sono in perfetta armonia con l’ambiente naturale. Ma
non sempre esse sono in armonia con l’uomo. Le leggende parlano di
creature dei boschi buone o cattive, a seconda dei casi. Anticamente
le religioni pagane adoravano gli spiriti della natura, basti
pensare ai Druidi che vedevano negli alberi le massime divinità. Col
passare del tempo, quando la religione cristiana si oppose al
paganesimo, tutto ciò che aveva attinenza con gli antichi culti
venne rivestito di una aura malvagia, pericolosa. Il bosco divenne
perciò “la selva oscura”, un rifugio per creature ostili che
insidiavano gli esseri umani. Da questa situazione derivarono
leggende con creature buone e altre con creature malvagie.
<<Sono solo credenze e miti. Ma ci sono da sempre persone che
affermano di aver visto più volte queste strane creature. La scienza
non dà loro credito, certo. Ma alcune di queste persone sono
autorevoli e in passato hanno difeso strenuamente la reale esistenza
degli spiriti abitanti dei boschi. Uno di questi è stato sir Arthur
Conan Doyle, lo scrittore che creò il personaggio di Sherlock Holmes.
Conan Doyle credeva ciecamente nelle fate.
<<Oltre che impareggiabile scrittore, lui era anche un grande
appassionato di parapsicologia, di occulto e aveva scritto persino
un’enciclopedia sull’argomento. Negli anni Venti difese, con
articoli e con un libro, due ragazzine inglesi che affermavano di
aver incontrato delle fate. Nel 1917, Frances Griffith, di dieci
anni, e Elsie Wright, di sedici anni, tornarono a casa dopo una gita
nei boschi dello Yorkshire dicendo di avere incontrato delle fate.
Rimproverate
dai genitori per essere bugiarde, presero una macchina fotografica,
tornarono sul luogo e fotografarono le piccole creature che avevano
visto. Nell’immagine, diventata famosa, Frances è circondata da
quattro piccoli esserini con le ali, a metà strada tra ballerine e
farfalle. Conan Doyle, informato della cosa, esaminò la fotografia
dicendo di non aver trovato nessuna traccia di trucchi. Scrisse
allora due articoli sullo “Strand Magazine” e poi un libro dal
titolo “La venuta delle fate” che ebbe anche una ristampa.
<<Successive indagini però dimostrarono che le foto erano false. Le
due ragazzine avevano ingegnosamente fotografato delle sagome di
cartone. E la stessa Elsie, ormai ottantenne, confessò prima di
morire che si era trattato di uno scherzo ma che sia lei che Frances
avevano mantenuto il segreto per non mettere nei guai il grande
scrittore. Questa storia dimostra che Conan Doyle voleva credere con
tutto il cuore alle fate. E anche molti di noi sentono,
istintivamente, di ammettere l’esistenza di qualcosa di invisibile,
di un’energia che si trova solo nella Natura.>>
Mentre il professor Centini mi diceva questo, ho ripensato alle mie
passeggiate sulle colline, a quella piacevole sensazione di non
essere solo. Mi sono così scoperto a fantasticare. Chi mi accompagna
lungo i sentieri di campagna? Folletti? Gnomi? Oppure il famoso Uomo
Selvaggio?
<<L’Uomo
Selvaggio è il protagonista di un mito diffuso in diverse culture ma
in particolare sulle nostre montagne>>, mi ha spiegato ancora
Centini, quasi mi avesse letto nel pensiero. <<Forse è lo stesso
essere che ha dato origine al mito dello Yeti in Nepal, del Bigfoot
nel nord degli Stati Uniti, dell’Almas in Mongolia. Io cerco le sue
tracce da quindici anni nelle storie dei pastori, nelle vecchie
leggende e mi ha affascinato perché rappresenta la parte di noi
rimasta selvatica, attaccata alla Natura, ai ritmi primordiali e
puri. L’Uomo Selvaggio dovrebbe essere una creatura un po’ uomo e un
po’ animale, di buon carattere, che nel corso della sua storia ha
insegnato ai contadini l’arte antica di fare
il formaggio, di allevare le api, di estrarre i minerali dalla
terra. E’ un guaritore ma evita gli uomini “civili” perché da loro
non riesce a farsi capire. L’uomo civile impreca contro la neve che
imbianca le strade, contro il vento o la pioggia e le altre
espressioni della Natura. E per questo non potrà mai dialogare con
la parte selvaggia che alberga in lui. Non potrà mai capire l’Uomo
Selvaggio se per caso dovesse incontrarlo.>>
<Non
è il mio caso>>, ho risposto prontamente. <<Io accetto tutto della
campagna dove vivo, ogni sua espressione, perché tutte hanno un
preciso significato.>>
<<E fai bene>>, ha detto Centini. <<La maggior parte delle persone
non gode più delle cose semplici della vita, non alza più la testa a
guardare le nuvole e non si ferma più a seguire il volo di un
insetto. Questo non rende l’uomo più felice. Ecco perché molti di
noi sentono impellente la necessità di ritornare sui propri passi e
di cercare fate e folletti. Sentono la necessità di cercare quel
“selvaggio” che potrà salvare loro la vita.>>
