QUEL POMERIGGIO A CASA DELLA CONTESSA EDDA CIANO

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Milioni di italiani hanno seguito alla televisione la fiction realizzata dalla Lux Vide sulla vita di Edda Ciano, figlia di Benito Mussolini, duce d’Italia e moglie del conte Giangaleazzo Ciano, che dal 1936 al 1943 fu Ministro degli Affari Esteri del governo Mussolini, e poi venne fucilato con l’accusa di tradimento.

Una donna  che visse situazioni drammaticicissime, da tragedia greca. L’infanzia povera, una giovinezza da favola e poi la tragedia che sconvolse la sua vita: il padre, Mussolini, che  condannò alla fucilazione il  genero, il marito di sua figlia. E lei, la figlia, che tentò in tutti i modi di salvare il marito senza riuscirci. E in seguito, dovette spiegare ai propri figli, che adoravano il nonno, come quel loro nonno, tanto affettuoso, aveva condannato a morte il loro papà.

La incontrai nel luglio del 1988, quando aveva 78 anni. Viveva a Roma, in un appartamento di due stanze, in via Paolo Frisi, ai Parioli.  Riservata taciturna, solitaria, non riceveva mai nessuno, tanto meno giornalisti. Mi fece da tramite un amico fotografo, Marco Spada, che aveva lo studio da quelle parti e gli era diventato amico. E fu un incontro che non potrò mai dimenticare. 

All’inizio, la contessa Ciano era piuttosto diffidente. Si capiva che aveva accettato di ricevermi solo per fare un favore a Marco. Ma, a poco a poco, si sciolse e quando si lasciò andare raccontando come aveva tentato invano di convincere suo padre a salvare la vita al proprio marito condannato alla fucilazione, c’era in quel piccolo appartamento una tensione di dolore che straziava. Edda raccontava senza la più piccola commozione. Nella sua voce c’era una freddezza che poteva essere odio spaventoso come anche pietà infinita totalmente priva di perdono.

Era una signora distinta, magrissima. Aveva un portamento energico. Parlava con tono secco, preciso. 

La sera prima dell’incontro, Marco Spada aveva voluto che assistessi a una scena curiosissima, ma importante perchè, in pratica, costituiva l’unico impegno fisso che la contessa Ciano aveva fuori casa.  <<Non esce mai, se non per fare la spesa>>, mi disse Marco, <<ma alle 18, infallibilmente, ogni sera, anche se piove o fa freddo, esce a portare da mangiare a dei gatti randagi. Quei gatti costituiscono in realtà la sua unica compagnia>>

Marco mi accompagnò con la sua auto nei pressi della palazzina dove la contessa abitava. Restammo lontani, ma in modo da poter vedere bene la strada. Faceva caldo. La città era sotto una cappa afosa, che rendeva faticoso muoversi e respirare. C’erano poche per­sone in giro. Quasi tutti se ne erano andati in vacanza. 

Qualche minuto prima delle 18, la contessa uscì dal portone della Palazzina.  Era elegante e camminava dritta, sicura. Salutò con un cenno del capo alcune persone che evidentemente la conoscevano. Aveva in mano un grosso cartoccio. Appena si avvicinò alla siepe che costeggiava la strada, da sotto le piante sbu­carono diversi gatti. Forse una decina. Erano guardinghi, ma non avevano paura della contessa. La co­noscevano, le corsero incontro con aria di festa. Lei sorrideva a quegli animali, li chiamava dolcemente, parlava con loro come se fossero stati delle persone. Depose il cibo in recipienti di plastica, ben lontani l'uno dall'altro, in modo che i gatti potessero mangiare senza li­tigare­. Sistemò diligentemente le ciotole molto vicino alla siepe, forse perchè fossero protette.  Rimase a guardare i mici che mangiavano. Passeggiava avanti e indietro, lentamente, mormorando in continuazione qualche cosa, rivolta ora a l’uno ora all’altro gatto. Quando i gatti ebbero finito il cibo, la contessa raccolse le ciotole, salutando con una carezza il gatto che aveva cenato, e tornò in casa.

All’inizio del nostro incontro, il giorno successivo, per stemperare l’atmosfera che si era presentata  subito fredda e diffidente,  dissi alla contessa Ciano che, la sera prima, l’avevo  “spiata”  mentre portava da mangiare ai gatti.  Lei mi guardò sorpresa e poi  sorrise con  gli occhi che si illuminarono. 

 <<Ho sempre amato gli ani­mali», mi disse. <<Da anni, tutte le sere, porto da mangiare ai gatti senza padrone che vivono nella zona. D'estate, quando la gente se ne va in vacanza, purtroppo, il loro numero aumenta. Tener testa a tutte le bocche da sfamare, diven­ta gravoso. Ma lo faccio vo­lentieri perché non riuscirei a dormire se sapessi che an­che uno solo di quei pove­retti è rimasto  senza cibo>>.

Eravamo seduti nel salottino, una delle due stanze del suo appartamentino.  Stanza piccola, ma ordinata, calda, piena di libri, di oggettini, di quadri, di fotografie che ricordavano il passato e le persone care. Aveva sulle ginocchia uno dei suoi due gatti, Pippo, mentre l’altro, di nome Miao Miao, si era accoccolato accanto a lei e il cane, uno “yorkshire” di nome  Mugni Mugni, stava ai suoi piedi.  <<Lui non ce la fa più a salire sul divano>>, mi disse guardando il cane con tristezza. <<E’ vecchio, ha già compiuto 17 anni. Se è vero che ogni anno  per i cani equivale a sette dei nostri, Nugni Mugni ha 119 anni. Penso con dolore a quando mi lascerà sola>>. E pronunciando queste frase la sua voce si incrinò. 

Marco mi disse che la contessa, una volta la settimana, si faceva accompagnare da un taxi in periferia della città per portare dei fiori sul luogo dove aveva sepolto i suoi cani e i suoi gatti che erano morti. 

<<Per terra non c’è nessun segno che indichi la sepoltura dei mie animali>>, disse la contessa. <<Non ho potuto met­tere niente perché il luogo non è mio.  Ho sepolto lì i miei cagnolini di nascosto. Così, la gente, vedendo che lascio dei bei vasi di fiori pregiati per terra, mi crede pazza. Qualcuno mi spia e, appena me ne vado, prende­ i vasi e se li porta a casa. Me lo ha detto un uomo che abi­ta vicino e allora gli ho spie­gato perché porto quei fiori.

<<Là, sotto quella terra>>, aggiunse la contessa dopo una pausa <<ci sono anche due cagnolini che sono stati molto importanti per me. Mi sono stati vicini nei momenti di grande dolore. Mi hanno aiutato a trovare il coraggio per vivere dopo le immani tragedie che si erano abbattute sulla mia famiglia. Forse, senza il loro affetto, sarei impazzita>>. 

La contessa rimase in silen­zio, fissando con gli occhi sbarrati il vuoto. Il suo volto era teso, pallidissimo. Le chiesi: <<Pensa spesso al passato?>>.

<<Non sono una donna che vive rimpiangendo i giorni belli della giovinezza>>, rispose. <<Certo, quando si è giovani, freschi, pieni di spensieratezza e di energie, ci si sente felici e potenti. Ma la giovinezza è una stagione destinata a finire e non ci si deve lamentare. Questo ge­nere di passato non mi inte­ressa e non lo penso. La mia mente, invece, è costante­mente fissa ai giorni della tragedia che sconvolse la mia vita e quella della mia famiglia. Quel passato non lo dimentico mai, nemmeno per un istante, è diventato la mia stessa natura...

<<Tutto cominciò proprio nel mese di luglio di 45 anni fa, con la caduta del fascismo dopo la famosa riunione straordinaria del Gran Consiglio nella notte tra il 24 e il 25 luglio....>>.

La contessa Edda Ciano non voleva parlare del passato, non voleva toccare quella tragedia che tormentava in continuazione il suo animo. Ma conversando di gatti, ricordando i cagnolini che aveva sepolto in quella terra di periferia non sua dove ogni settimana portava dei fiori, si era creata una atmosfera di confidenze, di fiducia che aveva scacciato la diffidenza. E per tutto il pomeriggio, la contessa Edda Ciano si lasciò andare, sfogando il suo dolore, la sua solitudine, lasciando che i ricordi traboccassero da quel suo animo segnato da immane dolore.